I privilegi dei sindacalisti li paga Pantalone

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I privilegi dei sindacalisti li paga Pantalone

20 Giugno 2007

I costi della politica sono diventati ormai un tormentone. Oggi non vi è, a destra come a sinistra, chi non reclami urgenti e radicali interventi di eliminazione degli sprechi e dei privilegi che ormai, in modo crescente, assistono i nostri rappresentanti. La questione è reale, anche se fa una certa impressione vedere gli eredi politici dei partiti di massa della prima repubblica (comunisti e democristiani in primis), veri responsabili della esaltazione scriteriata di un malinteso principio del primato della politica, ergersi oggi a paladini di maggiore rigore nella definizione dei confini fra legittime esigenze della democrazia e perversa occupazione da parte dei partiti di tutti gli interstizi della società civile.

L’impressione, peraltro, è che il vero detonatore della polemica non siano i privilegi in quanto tali, ma piuttosto il discredito che rischia di travolgere le nostre istituzioni democratiche. Ciò che la pubblica opinione non risparmia alla nostra classe politica non è tanto il livello delle indennità di parlamentari consiglieri regionali, comunali provinciali e circoscrizionali, i trattamenti pensionistici da favola di deputati e senatori, gli incarichi in società pubbliche di parlamentari trombati e dei primi dei non eletti. Ciò che rende insostenibili tali trattamenti di favore è soprattutto la resa assai modesta delle nostre istituzioni. Se ci trovassimo di fronte a un sistema capace di produrre strategie di governo e conseguenti decisioni attuative dell’indirizzo politico, si potrebbe anche sorvolare su alcuni aspetti non proprio edificanti della nostra classe politica. Il carburante fondamentale dell’antipolitica cui assistiamo è soprattutto la modestissima qualità della politica praticata.

Altra impressione è che la polemica, finisca per indulgere troppo su aspetti del tutto secondari, forse di maggiore impatto mediatico ma privi, e non solo dal punto di vista quantitativo, di reale rilevanza. Tutto sommato che le indennità parlamentari siano sostanziose ha una ragionevole giustificazione (se non altro dovrebbe rappresentare un incentivo alla selezione di rappresentanti più capaci e più onesti). Analogamente, l’esigenza di garantire alcune tutele ai parlamentari non rieletti, rafforzate rispetto all’ordinaria disciplina pensionistica, non è privo di ragionevolezza, a condizione che nel sistema vi siano prassi coerenti e morigerata (il che purtroppo spesso non è).

Il rischio dell’impostazione un po’ demagogica che ha preso il dibattito è però un altro. Il rischio è che in questo modo finiscano del tutto in secondo piano alcuni profili che, forse non sollecitano adeguatamente la pruderié dei lettori, ma sono più gravi, perché si tratta di privilegi non solo altrettanto privi di ragionevole giustificazione ma anche e soprattutto idonei a determinare guasti nel sistema in profondità.

Basti pensare al tema dei costi del sindacato, che in fondo altro non se non un capitolo del più generale tema dei costi della politica. In tutto questo gran parlare di indennità parlamentari, pensioni di deputati e senatori, trattamenti di consiglieri regionali, provinciali e comunali, quasi nessuno si è occupato ad esempio della situazione assai privilegiati in cui vivono oltre tremila sindacalisti, che svolgono la propria attività sindacale a tempo pieno ma sono integralmente pagati dallo Stato, retribuzione di risultato e progressioni economiche comprese.

Prevedere, come fece lo Statuto dei lavoratori, che i sindacalisti mantengano il posto di lavoro per la durata del loro incarico, ma fossero retribuiti dai sindacati presso cui prestano la propria opera, come accade normalmente nel settore privato, è evidentemente cosa ben diversa dal prevedere, come da anni fanno i contratti collettivi del pubblico impiego, che i dipendenti pubblici in distacco sindacale continuino ad essere regolarmente stipendiati dalle amministrazioni. La materia dei distacchi sindacali nel pubblico impiego oltre ad essere singolare in sé, è grave in primo luogo perché introduce un’odiosa discriminazione fra lavoratori pubblici e lavoratori privati. Ma è grave perché determina un pericoloso incentivo alla sindacalizzazione integrale del pubblico impiego che rappresenta il principale ostacolo ai processi di modernizzazione delle pubbliche amministrazioni. Ed è ancora più grave che una strategia del genere sia stata perseguita in sede di contrattazione collettiva senza alcun coinvolgimento del Parlamento.

E’ naturalmente i privilegi del sindacato non finiscono qui. Basti pensare ai patronati, finanziati dallo Stato, i quali svolgono in primo luogo attività di assistenza ai dipendenti per le vertenze di lavoro alle imprese ed allo Stato medesimo. O ai consigli di amministrazione e di vigilanza degli enti di previdenza, che per ciascuno degli enti e per i diversi livelli territoriali, forniscono incarichi remunerati a oltre cinquemila persone, la maggior parte dei quali di estrazione sindacale.

Del resto, per capire il grado di penetrazione nei gangli dello Stato che i sindacati sono stati in grado di costruire, si ricordi la vicenda del referendum sulle trattenute sindacali del 1995. Il referendum voluto da Pannella, prima del suo innamoramento per Prodi, abolì la disciplina relativa alle trattenute in busta paga per le quote sindacali che storicamente ha rappresentato un potente fattore di stabilizzazione della base associativa dei sindacati e della loro solidità finanziaria. Il principio che si affermò era semplice: l’associazione sindacale è libera, ma chiunque voglia iscriversi al sindacato deve farlo autonomamente provvedendo in proprio al versamento della quota associativa (come per i partiti o le altre associazioni in generale). Era anche un modo per costringere il sindacato a una vera democrazia interna, basata – in primo luogo – sulla espressa manifestazione di consenso degli iscritti e non solo sulla mancata revoca di una volontà espressa anni prima. Ebbene ad oltre dieci anni dal referendum nulla è cambiato. I contratti collettivi hanno reintrodotto la trattenuta in busta paga abolita dal popolo sovrano! E la cosa ancor più grave è che l’elusione della volontà popolare sia stata perpetrata non solo dalle associazioni degli imprenditori privati ma anche dallo Stato e dalle altre amministrazioni pubbliche, le quali in teoria dovrebbero nutrire un maggior grado di rispetto della volontà dei cittadini.

Si tratta evidentemente solo di alcuni significativi esempi, emblematici della situazione di  ingessamento politico e istituzionale nel quale versa il nostro Paese. Deve però esser chiaro che per recuperare maggiore capacità di governo del sistema, maggiore capacità decisionale e maggiore responsabilità politica, così fronteggiando l’antipolitica montante, occorre concentrarsi non solamente su prebende e privilegi dei nostri onorevoli senatori e deputati, ma soprattutto sulle vere strozzature che bloccano il sistema. Sarebbe forse il caso che i leader del nascente Partito democratico e del futuribile Partito delle libertà ripassino la storia inglese degli ultimi tre decenni, nei quali il durissimo scontro ingaggiato da Mrs. Tatcher con le potentissime Unions dei minatori inglesi ha reso possibile non solo uno spettacolare recupero di competitività di un sistema che sembrava vocato ad un inarrestabile declino, ma anche l’avvio di un corso politico di lunga durata, il New Labour di Tony Blair, che ha cambiato il volto ed il destino delle forze della sinistra europea.