I Repubblicani prenotano il Congresso ma è troppo presto per cantare vittoria

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I Repubblicani prenotano il Congresso ma è troppo presto per cantare vittoria

30 Ottobre 2010

Con l’approssimarsi delle elezioni di medio termine l’America si chiede per chi, questo 2 novembre, suonerà la campana a morto. E dibatte sulle previsioni. I risultati daranno ragione a chi pensa che difficilmente la nave dei democratici potrà arrivare in porto tutta intera o a chi, alla faccia della crisi e dei sondaggi, si aspetta (e spera) una bella sorpresa per Obama e il suo partito?

Stando all’ultima rilevazione New York Times/CBS News, una parte tutt’altro che trascurabile della coalizione che ha portato Barack Obama alla Casa Bianca nel 2008 e che nel 2006 ha dato ai democratici il controllo del Congresso avrebbe deciso di voltare gabbana e di dar fiducia ai repubblicani. I quali, sempre secondo il sondaggio, avrebbero recuperato il vantaggio acquisito dagli avversari negli ultimi cicli elettorali fra le donne, i cattolici, gli indipendenti e gli americani meno facoltosi.

Anche sull’economia, una delle questioni più dibattute in campagna elettorale, i repubblicani sono riusciti a recuperare il vantaggio democratico su temi quali l’occupazione e la riduzione del deficit del budget federale.

Fra coloro che vedono all’orizzonte una sonora débâcle democratica c’è Karl Rove, l’architetto delle campagne del presidente Bush nel 2000 e nel 2004. In un editoriale sul Wall Street Journal, Rove non ha remore a parlare di “apocalisse democratica” e ritiene che il prossimo 2 novembre gli elettori “emetteranno il verdetto sui primi due anni dell’amministrazione Obama”. In generale – nota Rove – le midterm elections sono esperienze ben poco piacevoli per la Casa Bianca, soprattutto quando, come oggi, l’economia perde colpi. Nello specifico, a rendere per Obama l’aria ancora un po’ più fosca, sono le nubi che si vanno addensando anche sui cieli di quelle key races che dovevano essere, nella teoria, un approdo sicuro per il partito in carica.

Come in Nevada, per esempio. Dove Harry Reid, capo della maggioranza democratica al Senato, rischia (e non poco) di perire sotto i tacchi della bizzarra candidata Tea Party Sharron Angle. Per di più in uno stato dove Obama, nel 2008, ha vinto per 12 punti, e con un’avversaria come la Angle che, con le sue numerose gaffe e sparate a effetto, sembra ce la stia mettendo proprio tutta per perdere preferenze. Per ora, la postura alquanto politically incorrect (che però, va detto, non dispiace a tutti) ha consentito all’ineffabile signora Angle di fregiarsi del primato di “candidata più pazza d’America” conferitole dal (progressista) Daily Beast. Quanto all’impatto sulle urne, non resta che – come per tutti d’altronde – aspettare martedì.

Oppure Joe Manchin in West Virginia. Il governatore democratico in corsa per il Senato è dato in recupero dai sondaggi ma non abbastanza per potersi sentire al sicuro rispetto all’avversario John Raese e intanto si è lanciato in quella che sembra una sorta di “manovra di allontanamento” dal presidente. L’impressione è stata corroborata dallo stesso Manchin in un’intervista a Fox News nella quale ha detto non solo che al progetto di legge ObamaCare lui non avrebbe mai dato il proprio appoggio se avesse saputo tutto ciò che vi era contenuto.

Non tutti sentono aria di disfatta in casa democratica. Errol Louis sul New York Daily News sostiene che, nonostante l’apparente impasse, i democratici potrebbero finire per “sorprendere tutti”. E cita alcuni analisti secondo i quali la “giornataccia” di martedì che tutti si aspettano per i democratici potrebbe rivelarsi molto meno terribile di quanto previsto e temuto. Anzi, secondo Louis, di gran parte le cattive previsioni sarebbe stata artefice gran parte del mondo mediatico mainstream che ha ignorato o minimizzato un fatto importante: la base organizzata del partito Democratico si sta muovendo “in modi che sondaggisti e sapientoni probabilmente non coglieranno”.

In questo senso, la variabile della quale troppo poco s’è parlato è, secondo Louis, il ruolo che giocherà l’elettorato di colore. A tale proposito cita David Bostis del Joint Center for Political and Economic Studies di Washington, stando al quale stavolta il “black vote” potrebbe davvero “fare la differenza” in molti casi.

Un’altra carta che secondo Louis potrebbe rivelarsi utile per i democratici è il “voto latino“, quello di un elettorato per niente soddisfatto dell’aspra retorica anti-immigrazione di cui è infarcita la campagna di molti candidati repubblicani e che – come afferma Maria Teresa Kumar del gruppo non profit Voto Latino – potrebbe essere un’autentica “sorpresa d’ottobre”.

A proposito del ritorno di fiamma democratico per i Latinos, Charles Krauthammer sul Washington Post cita un recente intervento radiofonico di Obama nel quale il presidente si è rivolto agli ispanici rimproverandoli di “restar fuori dalle elezioni invece di dire ‘puniremo i nostri nemici e ricompenseremo gli amici che sono dalla nostra parte su questioni che per noi sono importanti’”. Cioè, di fatto – spiega Krauthammer – spingere gli ispanici ad recarsi alle urne “per esigere vendetta politica sui propri nemici; presumibilmente, ad esempio, il quasi 60 per cento di americani che appoggia la nuova legge sull’immigrazione in Arizona”.

E questo “da un presidente che non usa neanche la parola ‘nemici’ per definire un regime come quello iraniano che contribuisce alla morte dei soldati americani in Afghanistan”; questo “da un uomo che tanto si è messo in vista dichiarando con forza che non c’erano stati blu o stati rossi, non c’era un’America nera o bianca o Latina, ma gli Stati Uniti d’America”. È così che finisce – rileva Krauthammer – “la grande, post-partisan, post-razziale presidenza della Nuova Politica: non in bellezza né fra i lamenti, ma con un disperato appello pre-elettorale alla ritorsione etnica”.