I Talebani scacciati dai Marines sono una minaccia per le truppe italiane

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I Talebani scacciati dai Marines sono una minaccia per le truppe italiane

03 Luglio 2009

Mancano circa cinquanta giorni alle elezioni in Afghanistan e la Nato deve raggiungere, ben prima di questo importantissimo appuntamento, il pieno controllo del territorio. Da ieri gli americani stanno conducendo un’imponente operazione, Khanjar ("Colpo di Spada"), definita “la più grande operazione aerotrasportata mai compiuta dai Marines dopo la guerra nel Vietnam”, nella zona di Helmand, una delle province più calde e problematiche dell’Afghanistan, estremo sud del Paese, a ridosso del Pakistan. Alcuni dati: all’operazione partecipano 4.000 fra Marines e altri militari Usa assieme a circa 650 soldati e agenti di polizia afghani. Cinquanta, stando a un comunicato del Corpo di intervento rapido statunitense, gli aerei mobilitati.

Prima osservazione: suona quantomeno strano che su un’operazione di tale portata vengano diffusi dati e particolari a poche ore dal suo avvio. La buona riuscita dell’operazione e, soprattutto, il maggior livello possibile di sicurezza per gli uomini che vi partecipano sono garantiti dalla segretezza. Altra possibilità è che i numeri diffusi siano un po’ “gonfiati”. Giustificabile mistificazione che serve sia da deterrente per i nemici, sia come dimostrazione di forza per quella popolazione locale il cui consenso è così strenuamente conteso da ribelli talebani e da forze della coalizione.

Seconda osservazione: generalmente operazioni del genere non vengono mai condotte isolatamente. Un’offensiva di così imponenti dimensioni (sempre stando al comunicato diffuso dagli americani) rischia infatti di provocare la “migrazione” degli insorgenti dalle zone di combattimento ad altre zone più “sicure”. Non è da escludere, quindi, che anche in altre aree del Paese qualcosa si stia muovendo. Magari proprio in quelle a responsabilità italiana.

Helmand è una delle zone più problematiche dell’Afghanistan. Negli anni ’50 del secolo scorso l’Usaids (United States Agency for International Development) ha investito qui molti soldi sia per progetti di irrigazione, sia per la formazione di tecnici agronomi. Un know how che in seguito è stato impiegato massicciamente per avviare, con successo, la coltivazione dell’oppio. È nella provincia di Helmand, infati, che si concentra la maggiore produzione di oppio di tutto l’Afghanistan.

Non solo. Qui arrivano i carichi di oppio provenienti anche dal nord, da Mazar-i-Sharif e dal Badakhshan, e dal centro, da Ghor, Bamyan e Uruzgan. A sud, Helmand ha le riottose regioni pakistane di Quetta e del Baluchistan, le zone preferite, per mancanza di controlli, per i narcotrafficanti che da lì raggiungono l’Iran, la Turchia, l’Est europeo e, quindi, i mercati occidentali.

Fino al 2006 l’intera regione era presidiata solo da 130 uomini delle forze speciali americane e uno sparuto contingente delle forze afgane. Da soli, avrebbero dovuto controllare tutta la zona. È solo nella primavera del 2006 che iniziano ad arrivare prima gli inglesi e, da marzo 2008, gli americani. Immediatamente si rendono conto della difficoltà della missione loro assegnata: il territorio è sotto il totale controllo di potenti signori della guerra che vantano saldi rapporti con il governo centrale di Hamid Karzai, completamente dediti alla coltivazione e al traffico di droga. A tutto ciò si aggiunge un’importante presenza talebana che ha i suoi santuari in Pakistan e nell’adiacente zona di Kandahar.

Sembra un’impresa impossibile. Ma, a questo punto, scatta l’operazione “Human Terrain”, la strategia con cui il generale Petraeus ha vinto la guerra in Iraq. I militari escono dalle basi e “battono” il territorio casa per casa, ma senza armi, bensì “presentandosi”: mentre stabiliscono rapporti personali con la popolazione civile, gli americani registrano la “mappatura” delle famiglie, la loro composizione, le reti parentali, gli spostamenti, i rapporti di lavoro. Infine, rassicurando sul perché della loro presenza nel Paese, cercano di portare dalla loro il consenso che, altrimenti, la popolazione accorderebbe (forse non proprio spontaneamente) a trafficanti e talebani. E da lì le cose iniziano a cambiare.

Subito a nord di Helmand c’è la zona di Farah, dove gli italiani hanno alcune FOB (Forward Operating Base, basi avanzate in zone “calde” e remote) e dove stanno combattendo a fianco degli afghani per riconquistare il controllo del territorio. I fatti di cronaca giunti fino a noi nei giorni scorsi hanno riportato di attacchi IED (Improvised Explosive Device, ordigni artigianali posti ai bori delle strade e fatti esplodere proprio al passaggio dei mezzi) sulla strada che collega Farah a Bala Boluk (dove i Paracadutisti della Folgore hanno la responsabilità della FOB “Tobruk”), la famigerata strada 617 che gli insorgenti non vogliono mollare perché funzionale al passaggio di traffici illeciti. La crescente concentrazione di insorgenti in questa zona e, di conseguenza, l’innalzamento del livello di pericolo, sono il risultato degli scontri che avvengono più a sud. Situazione che spinge i ribelli a spostarsi verso nord, vale a dire verso le zone a responsabilità italiana.

E poi c’è l’estremo nord dell’Afghanistan, la zona di Bala Morghab, altra area calda, al confine con il Turkmenistan, dove, l’assenza di controlli ha permesso il fiorire di traffici illeciti attraverso la frontiera. Infine, sempre sotto responsabilità italiana, c’è la Valle di Musahi, 30 chilometri a sud di Kabul. La valle è un ponte di passaggio privilegiato per gli insorgenti che, provenienti dal Pakistan e dalla confinante provincia del Logar, dove negli ultimi mesi c’è stato un consistente aumento di presenza americana e di scontri, si dirigono verso la Capitale.

Insomma, la massiccia offensiva lanciata dagli americani per “ripulire” la zona rientra perfettamente nella strategia Nato di assunzione del controllo del territorio in vista delle elezioni. Ma la Coalizione, in questo momento, non può permettersi di lanciare offensive per ripulire aree e poi ritrovarsi gli stessi ribelli in fuga in altre zone del Paese. Chissà quindi che anche nelle aree a responsabilità italiana qualcosa non si stia già muovendo.