I tesori dell’ultimo Michelangelo
02 Novembre 2008
Il tempo è una dimensione con la quale l’uomo deve fare i conti in ogni momento della sua vita e della sua storia: dà e toglie con la levità di un soffio.
L’artista crea e rende sublime anche ciò che è terreno, travasando il suo spirito in tutto quanto produce e rendendo possibile una comunicazione che va oltre il suo tempo.
Pittura, scultura e musica ci parlano con un linguaggio universale, ma solo la pittura e la scultura ci comunicano con straordinaria immediatezza l’agitazione creativa, i turbamenti che hanno spinto ogni artista a trasfondere nell’opera le urgenze della propria anima: ogni tratto di pennello, ogni colore od ombra, ci raccontano dall’abisso dei secoli passati la vita del tempo e di colui che ha cercato di fermarla.
Così che il tempo pare vinto, fermato nell’attimo che l’artista ha colto.
Ma il tempo non concede che tregue illusorie e anche se talvolta ci sembra che un capolavoro sia immutabile ed eterno e che nulla possa scalfirlo, occorrono interventi periodici, a volte molto laboriosi, per evitare che le grandi testimonianze dell’arte umana si confondano nella polvere fina dei secoli e perché possano continuare a parlarci con la voce di quell’artista, della sua vita e del suo genio.
Uno degli artisti che più hanno colpito e colpiscono l’anima e la mente di chi ammira i suoi capolavori è Michelangelo Buonarroti non solo per quello che ha fatto e lasciato al mondo, a noi, ai posteri, ma per com’era come uomo e come artista.
Molte delle sue opere sono state e saranno oggetto di cure, non sempre amorose, perché il sentimento d’invidia è merce terribilmente diffusa. Basti ricordare che appena terminato il Giudizio, molti incominciarono a tuonare contro i suoi corpi nudi, e in prima fila stava il suo così detto amico Pietro Aretino. Michelangelo si arrabbiava e talvolta si stizziva ma si guardava bene dal toccare o ritoccare quello che aveva sentito come “necessità artistica”. Per tutta la vita rincorse una perfezione espressiva che nasceva dalla sua dedizione totale alla bellezza, in tutte le sue manifestazioni.
Un momento prodigioso per le arti italiane che non ebbe eguali in nessun altro tempo o paese. Michelangelo è uno di questi geniali e multiformi artisti, capaci di esprimersi con registri diversi ma riuscendo sempre a comunicare, allora certamente come ora, la potenza della forza creativa che gli ruggiva dentro.
Riesce a stupirci anche nelle poche rime che ci lascia e che compone soprattutto nell’età matura e nella vecchiaia.
La sua figura solitaria si staglia fra i rimatori del Cinquecento.
I poeti cantano l’amore, ma in Michelangelo questo sentimento viene sublimato e diventa strumento di una tormentata ricerca di perfezione spirituale.
Immagini, intuizioni, concetti si presentano come lampi che abbagliano tutt’ora e dai quali si ricava la dolorosa consapevolezza del tormento interiore dell’artista.
L’arte fu suo “idolo e monarca” ma non gli dà solo la gioia di quando l’artista riconosce la coincidenza miracolosa tra ciò che sente e ciò che esprime. Gli fa provare ben altro: tra artisti grandi e piccoli si svolge una guerra silenziosa ma non meno violenta, una guerra senza esclusione di colpi per ricevere o conservare incarichi prestigiosi. Il tempo del Nostro è ricco anche di intrighi, di maldicenze e di veleni che gli lasciano amaro in bocca e, a volte, una rabbia che non riesce a sfogare ma che gli ribolle dentro come la lava di un vulcano. Il rimedio è scrivere a completamento, a coronamento, talora a spiegazione, di quello che le sue portentose mani producono con altri strumenti. La scrittura poetica, il cui linguaggio gli è congeniale per la caratteristica della sintesi che Michelangelo predilige, diviene col tempo una terapia, e per rendersene conto, basta scorrerne i titoli. Amore e morte, dolore e pace, tormento e fede sono i temi che affida alle rime e la sofferta ricerca della parola che interpreta efficacemente i suoi sentimenti gli regala fino all’ultimo momento qualche barlume di serenità.
Uno dei temi che Michelangelo predilige è “la notte” che definisce “ombra del morir”
O ombra del morir, per cui si ferma
ogni miseria, a l’alma, al cor nemica,
ultimo degli afflitti e buon rimedio,
tu rendi sana nostra carn’inferma
rasciugh’i pianti e posi ogni fatica
e furi a chi ben vive ogn’ir’e tedio.
Sale prepotente alla memoria l’incipit degli Inni alla Notte[1] ma non si può altrettanto non richiamare alla mente la statua della Notte scolpita da Michelangelo nelle Cappelle Medicee: è talmente importante per lui che a volte le parla coi versi così noti e così struggenti:
Caro m’è il sonno, e più l’esser di sasso,
mentre che’l danno e la vergogna dura.
Non veder, non sentir, m’è gran ventura;
però non mi destar, deh! Parla basso.
Anche in poesia, Michelangelo si esprime in un modo unico, che si discosta da quello del tempo: malgrado la cura compositiva sia raffinata, sia il verseggio che il contenuto conservano una virilità schietta ed aspra che la forma pare tenere a freno ma non domare.
Michelangelo non ha bisogno di mutare il suo stile, di conformarsi a qualcosa perché nei suoi versi parla con la sua anima e ci consegna una sorta di conclusione: l’arte non basta più c’è solo la fede.
Né pinger né scolpir fia più che quieti
L’anima, volta a quell’amor divino,
ch’aperse, a prender noi, ‘n croce le braccia.
Ho voluto ricordare le Rime per introdurre la figura dell’uomo, perché molte appartengono ad una età avanzatissima e quindi raccolgono come i frutti di lunghe meditazioni e perché spesso le immagini che traduce con parole sono quelle che ritroviamo nella sua pittura e nella sua scultura.
La composizione poetica che viene spesso citata Giunto è già il corso della vita mia da cui sono tratti gli ultimi tre versi, risale probabilmente alla fine del 1552.
E questi tre versi ci conducono direttamente alla Crocifissione di S. Pietro che si trova nella Cappella Paolina.
Questa sede viene costruita e ricostruita, abbellita e ornata ininterrottamente anche se il periodo d’oro comincia col Rinascimento. Papa Niccolò V, grande amico delle lettere e delle arti, dà inizio alla Biblioteca Vaticana, fondata poi da Sisto IV. Intraprende poi un’opera grandiosa di ricostruzione e di riassetto tanto che “il cupo castello medievale” si trasforma in una dimora principesca[3].
Il pregio di questo Papa è quello di aver lanciato per così dire l’idea che lettere ed arti si possano mettere al servizio della fede, così motivando la sua scelta: le opere d’arte possono accrescere l’autorità della Sede Apostolica; il popolo ignorante vien confermato nella sua debole fede solo dalla grandezza di ciò che vede.
Dopo la tragedia del Sacco di Roma (1527) e la battuta d’arresto di quel tragico periodo, il papa Paolo III Farnese, grande umanista, dà impulso ad una straordinaria ripresa artistica.
Poco prima della sua morte, avvenuta nel 1534, papa Clemente VII aveva commissionato a Michelangelo l’affresco del Giudizio Universale. Paolo III conferma tale incarico e anzi spinge Michelangelo ad eseguire l’affresco con molta celerità. Nel frattempo aveva conferito all’architetto Antonio da Sangallo il Giovane, l’incarico di rimaneggiare la zona posta a sud-ovest del palazzo.
Questi lavori avevano richiesto anche l’allargamento della Scala del Maresciallo, via di accesso alla Sala Regia, rendendo così necessario l’abbattimento di una piccola cappella,
Papa Farnese impose letteralmente a Michelangelo di decorare le due pareti a lato dell’altare della nuova Cappella.
La volta viene affidata a Perin del Vaga che la decora con stucchi andati poi perduti poco dopo in un incendio e le due pareti laterali all’altare, il papa le vuole affidare ancora a Michelangelo. L’artista non ne è entusiasta, come sempre d’altro canto quando gli veniva richiesto un lavoro che non fosse di scultura e anzi, si lamenta con un amico di non poter negare nulla a papa Paolo e di essere “malcontento”.
Così obbedisce e rappresenta sulla parete di sinistra
Dio, scriveva Pico della Mirandola, ha voluto mettere dentro l’uomo il sublime e il bestiale, così che ciascuno solo con la sua libertà possa scegliere.
Nel Giudizio Universale della Cappella Sistina, è come se Michelangelo avesse voluto spronare ogni uomo, allora come ora, a scegliere bene.
Uno strano pittore Michelangelo, che riteneva gli fosse decisamente più congeniale l’arte della scultura: un’arte che lo prendeva corpo e anima perché se dal suo spirito si formava l’idea, erano le sue mani strette allo scalpello, il suo corpo che spingeva, tratteneva e affondava nella durezza del marmo, che vincevano la materia immettendovi il soffio poderoso della sua vita.
Osservando il Giudizio, si comprende bene come Michelangelo amasse la scultura sopra ogni cosa: lo si vede nel brulicare di anime che sono corpi pieni che si torcono e si rivoltano che si sollevano dalla superficie e che si muovono nello spazio: la profondità che offre penetra nella mente e nel cuore di chi lo ammira. Il Giudizio è come una specie di inarrestabile eruzione lavica di genio, di ispirazione, di religiosità. Tanto è vero che Michelangelo lo termina in tempo record: quattro anni per una superficie di oltre duecento metri quadri. Michelangelo vi raccoglie e vi documenta la sua fede, i suoi timori e i suoi ideali.
Quando viene incaricato di porre mano ai due affreschi della Paolina, Michelangelo non è felice dell’incarico, ma pare che questa sua “malcontentezza” non incida molto sulla sua opera: l’intensità drammatica che riesce a rendere non sembra risentire affatto nemmeno degli anni che sono passati.
Si suppone generalmente che con l’avanzare degli anni negli artisti si affievoliscano come le possibilità del corpo, anche quelle dello spirito, che la vena si inaridisca, che subentri una maniera, un mestiere che possa solo passabilmente rincorrere la vera autentica ispirazione.
Michelangelo è la dimostrazione di come ciò non sia affatto vero e di come, nel suo caso, il corpo abbia avuto una storia e il suo genio un’altra.
Quando riceve l’incarico per gli affreschi della Paolina, Michelangelo è sofferente per calcolosi renale e per le infiammazioni articolari causate dal lungo e massacrante lavoro cui si è sempre sottoposto che gli rendono difficoltosa, a volte, perfino la prensione.
D’altra parte, se il Giudizio viene progettato e concluso tra il 1534 e il 1541, per i due affreschi della Paolina, Michelangelo si impegna dal 1542 al 1550, malgrado le dimensioni di quest’ultimo lavoro siano ben più ridotte rispetto alla superficie del Giudizio: due affreschi ciascuno di
E’ dolore tenere il pennello, è dolore muovere le braccia, la spalla non gli consente più certi movimenti ma la sua arte non ha subito l’affronto del tempo.
Ma il risultato è straordinario.
I due affreschi della Cappella Paolina che Michelangelo realizza sono a dir poco sconcertanti, specialmente per l’epoca, sia per l’evidente volontà dell’autore di concentrare l’attenzione dello spettatore sui soli personaggi trascurando il paesaggio, sia perché affronta alla sua maniera, diretta e poderosa, scarna ma efficacissima, i temi prescelti.
Nel primo affresco, la struttura della scena è costruita come corona al getto di luce che colpisce S. Paolo che è costretto a chiudere gli occhi: le figure umane sconvolte dal fatto ripiegano sui lati, Cristo si protende in un volo imperioso a braccia tese verso il Santo e gli angeli, nulla hanno a che vedere con le caratteristiche iconografiche del tempo. I loro corpi sono aerei ma umani, i volti ansiosi per il prodigio che sta per avverarsi. E san Paolo illuminato in pieno dal fiume di luce ha un volto di vecchio (benché all’epoca della conversione fosse giovane) ispirato, con gli occhi chiusi, una mano alzata quasi a ripararsi, che tuttavia accoglie consapevolmente il dono che Cristo gli fa.
Mentre
Marcel Brion[4] ne descrive “l’architettura rigorosa di linee oblique e verticali che dividono lo spazio, sempre nel senso della profondità, in un certo numero di campi, i quali sono anche campi di forze. La potenza più concentrata qui che nel Giudizio Universale o nel soffitto della Sistina, detiene un valore esplosivo, una carica d’energia che sono forze senza pari in tutta l’opera di Michelangelo. Quanto allo stesso San Pietro, è un titano fulminato, un colosso incatenato, un Prometeo inchiodato alla roccia, che richiama il volto del Mosè, lo completa e lo termina psicologicamente”.
Certo è che in questi affreschi Michelangelo rinnova e ricrea se stesso, la sua ispirazione, il suo linguaggio. Non è l’artista che trascina la sua vena ma un artista che interpreta con un vigore espressivo prorompente a dispetto dell’età, nella Conversione di San Paolo la potenza della grazia e nella Crocifissione di San Pietro la necessità delle opere e la conferma della fede attraverso la morte.
I giudizi su queste opere non sono sempre positivi, ma certo, non è facile reggere il confronto con il genio di Michelangelo!
La decorazione della Cappella Paolina è completata, quando vi si svolgano importanti cerimonie, da due arazzi eseguiti verso il
Certo il tempo non è passato con lievità su questo gioiello poco noto: per lunghi anni vi furono celebrate cerimonie quotidiane e, come ricorda il Card. Martin, al fumo delle candele, si aggiungeva anche quello dell’incenso non meno nocivo per le pitture.
Vi furono interventi di restauro nell’Ottocento e nel 1934.
Per ridare l’antico splendore a questa Cappella e alle straordinarie pitture di Michelangelo, Paolo VI la fece restaurare in occasione del V centenario della nascita dell’artista, nell’anno del Giubileo 1975, affidando la direzione dei lavori al decoratore milanese Bellini.
Ora, questa Cappella che contiene tanta arte e tanta storia, sta vivendo un grande ciclo di nuovi e importanti restauri sotto la guida del Capo restauratore Maestro Maurizio De Luca.
Ma c’è da augurarsi che si possa ammirare presto almeno in riproduzioni che riescano degnamente a celebrare, dopo tanto oscuramento metaforico e non, l’ultima opera di un artista che ha avuto il pregio di rappresentare anche e soprattutto l’umanità sofferente.
Il fascino irresistibile che i due affreschi esercitano su tutti coloro che ammirano Michelangelo sta nel loro essere opera ultima, che tuttavia nulla ha da invidiare ai lavori precedenti che anzi sembra aprire la strada a linguaggi espressivi assolutamente nuovi ed originali; sta nel suo essere il canto d’addio di un genio che ha, usando le sue stesse parole, sposato l’arte e che considera le sue opere i suoi figlioli veri.
[1] Novalis scrive gli Inni alla notte che ritoccherà per anni nel breve corso della sua esistenza, partendo da un Urhymne, da un inno originario che risale al 1797 circa e che nella composizione finale diventerà il terzo. “Tu estasi notturna, sonno del cielo”…. E nel Secondo: Senza tempo è il regno della notte,/ eterno dura il sonno, santo sonno!…….e che rechi la chiave della dimora dei beati/ e che dell’infinito segreto,/ sei il silenzioso araldo.
[2] Come ci ricorda il caridinale Jaques Martin, nello splendido Vaticano sconosciuto, Libreria Editrice Vaticana, 1990
[3] ibidem pag. 18
[4] Marcel Brion, Michelange, Paris, 1939, pagg 341-342