I versi cattolicissimi della Campo come antidoto al Concilio Vaticano II
08 Gennaio 2011
di Luca Negri
Chi nutre una profonda ammirazione per la figura e l’opera di Cristina Campo prova di certo un poco di imbarazzo a scriverne. Lei stessa dichiarò che avrebbe preferito aver scritto meno di quanto fece, giacché “di ogni parola dovremo render conto”. È però un bene che quell’imbarazzo venga superato per omaggiare degnamente e dedicare ancor più attenzione ai suoi testi; Cristina Campo, pseudonimo principale dietro al quale si nascondeva Vittoria Guerrini, nata nel 1923 e trapassata nel 1977, è stata infatti una delle voci più preziose della cultura italiana del secolo scorso.
In molti se ne stanno accorgendo e negli ultimi anni hanno letto e riletto le sue opere e i suoi epistolari grazie alla casa editrice Adelphi che ha pubblicato questo tesoro seminascosto. In vita la Campo aveva dato alle stampe solo tre libri, editi da marchi gloriosi e coraggiosi come Scheiwiller, Vallecchi e Rusconi (durante il periodo aureo che vide animatori straordinari come Alfredo Cattabiani e Augusto Del Noce), oltre ad un manciata di articoli, molte traduzioni e qualche meravigliosa poesia.
L’esegesi di tutta quest’opera è ancora agli albori e dunque vi è motivo di rallegrarsi per l’uscita di un bel saggio di Giovanna Scarca, Nell’oro e nell’azzurro. Poesia della liturgia in Cristina Campo (Ancora edizioni). Il lavoro della Scarca intende “dilatare la lettura della Campo oltre i confini del letterario e dell’estetico per ricondurla all’orizzonte infinitamente più ampio che le pertiene, che è quello biblico, ascetico e liturgico della tradizione cristiana”. Nobile intento, dato che l’artista bolognese ebbe chiaro quanto la poesia fosse figlia della religione, ovvero della preghiera e del rito. Stessa consapevolezza posseduta dai suoi principali maestri letterari: Hugo von Hofmannsthal, T. S. Eliot e Simone Weil.
La Campo, creatura ieratica sempre in bilico fra mondo terreno e celeste (anche a causa della malformazione congenita al cuore che funestò la sua vita e la uccise a soli 54 anni) cercava ispirazione nell’“universo sapienziale delle fiabe” e in quello della grande tradizione cristiana; considerava le fiabe come parabole convergenti sui medesimi temi del Vangelo, sulla stessa “obbedienza alla fede nell’invisibile” ed impegnate nella stessa ricerca del Regno dei Cieli.
La poesia era per lei esercizio di ascolto, di suprema attenzione ed elevazione della parola dalla sua decadenza in banale chiacchiera. La bellezza artistica doveva essere epifania, ovvero svelamento del divino. Il suo interesse per la religione sbocciò alla metà degli anni Sessanta durante il sodalizio spirituale e sentimentale con Elémire Zolla. Il lavoro comune di compilazione e traduzione per la preziosissima antologia I Mistici d’Occidente, la meditazione sui versi di San Giovanni della Croce e sulle massime dei Padri della Chiesa consacrarono definitivamente la sua “attenzione” al rito religioso, alla scrittura intesa come rito.
Lei si concentrava sulla liturgia, ovvero sull’agire contemporaneo di gesto e parola, sulla celebrazione del mistero, mentre la Chiesa di Roma usciva dal Concilio Vaticano II profondamente trasformata. La riforma liturgica decisa dal Cardinal Giacomo Lercaro e dal suo consigliere Giuseppe Dossetti (l’ex “professorino” che fu anche fra i padri costituenti e influenzò tutta l’ala sinistra della Democrazia cristiana) sostituiva il volgare locale al latino universale, faceva celebrare il sacerdote verso i fedeli e non più verso l’altare, mandava in soffitta la musica gregoriana per incentivare la partecipazione canora dell’intera assemblea. La messa non era più il rinnovarsi del sacrifico cosmico e storico del Cristo, la liturgia terrena non era più “ombra stampata sulla terra della liturgia celeste”, il prete non era più il sacrificatore dai carismi quasi sciamanici ma più che altro un assistente sociale o un apprendista psicologo.
La Campo combatté quella degenerazione, raccolse firme perché la liturgia antica potesse venir celebrata almeno nei monasteri (aderirono tra gli altri Montale, Borges, De Chirico, Maritain, Quasimodo, Ceronetti), diede vita alla sezione italiana dell’associazione tradizionalista Una voce, collaborò alla stesura dell’esame critico del Novus Ordo Missae indirizzato a papa Paolo VI. Sconfitta dalla spirito del tempo, si rifugiò nel millenario e puro rito bizantino, ancora capace di suscitare magia e divinizzare i partecipanti.
Proprio alle celebrazioni della Chiesa d’Oriente si ispirò per le composizioni poetiche degli ultimi anni. Ed è su quest’ultime che il libro della Scarca si concentra maggiormente, non mancando di sottolineare la parentela della poetessa con Dante e Manzoni, gli unici autori italiani che fecero letteratura religiosa liturgica e non solo devozionale (basti pensare alla Commedia e agli Inni sacri).
Attraverso le ultime poesie la Campo lasciò testimonianza di alcune profonde verità; contro la deriva spiritualistica rammentò la carnalità del cristianesimo, il necessario coinvolgimento di tutti i sensi del corpo durante la messa, l’atto del mangiar Dio simboleggiato dall’eucarestia. Poesia, dunque, che svolge la stessa funzione delle icone orientali e dei mosaici d’oro e d’azzurro dei templi bizantini: aprire una finestra sulla realtà divina. I meriti dell’opera della Scarca nel sondare il rapporto fra scrittura profetica e liturgia sono appena offuscati da alcune vistose reticenze e da qualche forzatura.
Ad esempio, Nell’oro e nell’azzurro cita spesso Giovanni Paolo II, ma non concede neanche una menzione in nota al successore Benedetto XVI. Scelta bizzarra, dato che l’attuale pontefice ha pubblicato nel 2000 l’imprescindibile Introduzione alla spirito della Liturgia. In quelle pagine l’allora Prefetto della Congregazione per la Fede faceva chiarezza sul reale significato della liturgia e sui troppi eccessi postconciliari. Dall’altare e il sacerdote non più rivolti ad est, verso il sole che sorge, alle mielose caricature del cantautorato che hanno preso il posto del canto gregoriano, dall’importanza dell’inginocchiarsi e non afferrare l’ostia con le mani ma riceverla in bocca, Ratzinger non tralasciò nulla. Tutte cose molto care alla Campo; la Scarca però preferisce citare i profeti del cattolicesimo progressista come Dossetti, Turoldo e Enzo Bianchi e il dubbio che si senta più a suo agio fra i progressisti che non hanno digerito l’elezione di Benedetto XVI ci pare motivato. Forse così si spiega anche la mancata citazione del Motu proprio con il quale nel 2007 il rito in latino è stato nuovamente permesso.
Se è poi vero che la protesta della Campo contro il Concilio non si era evoluta “in un tradizionalismo chiuso nel passato”, sarebbe stato più onesto ricordare la sua grande ammirazione per monsignor Lefèbvre, fondatore della Fraternità Sacerdotale San Pio X che si incaricò di conservare il rito tridentino, ed il rapporto epistolare che legò i due. La Campo frequentò le celebrazioni ortodosse non solo per spiccato sentimento ecumenico, ma perché il cattolicesimo progressista aveva rinnegato la sua parentela con la magia delle fiabe: non bastava scambiarsi un segno di pace per compensare quella perdita.