Il ‘900 è finito da un pezzo. Le ideologie no
11 Maggio 2008
Natalino Irti è un filosofo del diritto e non sta ai giochi
del politically correct. Dunque, il suo libercolo, La tenaglia. In difesa dell’ideologia politica, (Laterza, Roma-Bari
2008, pp. 86, € 10,00), vale il prezzo di copertina, che non è poco visto che
si tratta di poche decine di pagine e siamo tutti un po’ in bolletta, noi che
facciamo questo mestieraccio. Perché questo libretto è suggestivo e vale il
prezzo di copertina? Semplice: perché affronta la questione decisiva del nostro
tempo, il tabù che va sotto il nome di “fine delle ideologie”.
Da tempo sono
convinto che le ideologie non solo non siano finite, ma si siano addirittura
moltiplicate, senza avere quella dura scorza drammatica che le rendeva così
fieramente novecentesche, ma con Irti ho imparato anche che è cosa buona e
giusta che vi siano ideologie. Si tratta di comprendere bene.
L’ideologia è una
filosofia che si fa orientamento nel mondo. Così concepita, Marx è fuori gioco
e i pensatori deboli della postmodernità possono anche andare in vacanza, dopo
aver fatto vacatio con la mente per
troppo tempo. A questo livello, sono d’accordo con Irti e, come lui, non ho
paura delle parole, casomai la penso come Longanesi: non ho paura delle loro
idee, ma delle loro facce. Anche il filosofo del diritto che più ostinatamente
si confronta con quell’altra vittima del delirio autoreferenziale della teoremi
che si chiama Severino la pensa così, allora siamo in due. La sua formula, per
le facce intendo, non è quella longanesiana, ma si rifà a Schmitt e qualche
altro peso massimo del pensiero: “pragmatismo acquoso”. Che produce pesci
lessi. Gente che tifa per non si sa cosa e quando chiedi loro le ragioni di
quanto si addensi nella corteccia prefrontale, ti senti rispondere: dobbiamo
agire. Che corrisponde, più o meno, al morettiano “vedo gente e faccio cose”.
Attivismo puro che si avvolge e si avvita su se stesso, producendo lo stesso
effetto dell’eros senza amore: dopo un po’, sei spossato, ma è solo ginnastica.
Dunque, ha ragione su tutta la linea Irti. Duole doverlo dire, ma i critici
delle ideologie hanno messo in piedi un menù senza contorni, tutto primo e
secondo, con la frutta e il dessert, ma quando si mangia si vuole anche
accompagnare con pietanze a latere,
gustose, anche strane, diverse dal solito. Fuor di metafora: abbiamo infilato
tutto nel tritacarne, dopo lo spettacolare crollo del muro di Berlino,
lasciando da parte tutte le sfumature, cioè quei famosi dettagli che fanno la
differenza, e oggi ci troviamo in balìa di un pragmatismo multiculturale, che
taluni chiamano “riformismo” e che si nutre di parole, delle sue parole, di un
gergo autoctono. Un mondo fatto di indigeni che parlano la stessa lingua, ma
non articolano alcuna sintassi. Grammatica del nulla senza sintassi del
progetto. Perfetto. Le cose stanno così.
Ma non è tutto. Perché, in realtà, non
è uguale a zero definire l’ideologia “falsa coscienza” o totalitarismo di fatto
e, parimenti, non è irrilevante connotare l’ideologia come filosofia che
orienta l’azione nella storia. Sono due continenti semantici diversi e occorre
fare un po’ di filologia. Anche perché, a questo punto, Irti sbaglia. Se è
infatti vero, come è vero, che l’ideologia politica possa dirsi in molti modi,
non è affatto vero che tutto graviti attorno alla politica, come, estremizzando
Schmitt e inserendo dosi massicce di giacobinismo, pensa il filosofo del
diritto. E non è vero che dalla “tenaglia” che stringe la politica, tra la
tecnocrazia e la clero-crazia si risolva attraverso il recupero di un tèlos, di una finalità capace di
orientare la vita e l’azione umane. In primo luogo, perché non è dalla
clero-crazia che ci dobbiamo difendere, bensì dal nichilismo che sta inquinando
anche la politica. In secondo luogo, perché Benedetto XVI parla di recupero di
una “laicità positiva”, come fa Irti, e dunque occorre intendersi; delle due
l’una: o siamo laici, ancorché “ideologici”, in quanto proponiamo un progetto
positivo per l’umanità o siamo figli della stagione di Porta Pia e della
dicotomia amico-nemico di schmittiana memoria, la quale, sia chiaro, non mi
scandalizza, anzi mi affascina, ma non per questo la ritengo adeguata alla
strutturazione di un discorso sensato sulla laicità.
Qui Irti commette un
errore teorico e analitico. La sua sfida ideologico-progettuale viene così a depotenziarsi
ed entra nel cortocicircuito semantico heideggeriano e severiniano sulla fine
dell’Occidente e il dominio della Tecnica. Dopodiché non se ne esce più e
nessuno è in grado di stabilire la verità, anche sul piano storico, perché
siamo in piena “zona grigia”. E’ per questo che Severino è inconfutabile,
perché la sua strategia filosofico-comunicativa attinge dall’aura sacrale del
pensiero per connotare una realtà che esiste ma non può essere assolutizzata
senza alcuna discriminante storica. Mixtum
compositum.
Le pagine dedicate a questa ricostruzione teorica sono le più
deboli. Resta, invece, sul tappeto la sostanza della questione, che divido in
due sezioni: a) “Le parole non debbono stupire o intimidire, perché i problemi
fondamentali del tempo attendono risposta dal pensiero, e il pensiero vibra e
opera in ciascuno di noi” (p. 82); b) “L’ideologia soddisfa il bisogno di tèlos, di uno scopo, che dia fondamento alle molteplici decisioni,
e tutte le raccolga e spieghi. (…) Le fedi religiose sono fedi in un fine, che
dà senso all’intera storia umana. Anche la politica, la quale voglia rompere
l’accerchiamento, ha bisogno di fini” (p. 87). Sarebbe corretto aggiungere, a
questo punto, che nessuna ideologia, neanche concepita come filosofia generale
della vita, può surrogare la religione e ancor meno la fede come dimensione
spirituale e mistica, come una vastissima documentazione filosofica e teologica
ha largamente dimostrato, tuttavia, non è il caso di spaccare il capello in
quattro. Le questioni ci sono e ad esse dobbiamo dare una risposta. Per fare
politica e umanizzare la storia.