Il bonus Maroni non serve ai conti ma migliora il lavoro

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Il bonus Maroni non serve ai conti ma migliora il lavoro

08 Maggio 2007

Il Nucleo di valutazione della spesa previdenziale operante presso il Ministero del lavoro nei giorni scorsi ha espresso il giudizio secondo cui il “bonus Maroni” – cioè l’incentivo a ritardare l’esercizio del diritto pensionistico maturato – per il quale restano ancora pochi mesi di “vita” (l’istituto verrà meno con il 31 dicembre prossimo) non ha determinato  giovamento  per i conti pubblici.

Ricordiamo come il bonus risulti un elemento portante (insieme al tecnicamente censurabile “scalone”) della legge. A dire il vero un giudizio di sostanziale neutralità per i conti pubblici degli incentivi al posticipo del pensionamento previsti dalla Maroni era già stato espresso, sin dal varo dell’istituto, da autorevoli centri studi di settore. In effetti anche una valutazione del tutto empirica, mostra come esso risulti troppo “ricco” per gli interessati (non a caso la stampa lo definì subito, con buona intuizione, “super bonus”) per consentire anche risparmi al sistema. Il meccanismo di funzionamento dell’incentivo è abbastanza semplice: un soggetto in possesso del diritto pensionistico non lo esercita nell’immediato e richiede al proprio ente previdenziale il bonus: il trattamento pensionistico di spettanza è liquidato virtualmente e inizia ad essere attribuito all’interessato quando egli decida di pensionarsi effettivamente. Nel frattempo, il lavoratore rimasto in servizio diviene destinatario di un beneficio economico straordinario, consistente nel ricevere mensilmente in busta paga, integralmente sottratti ad imposizione fiscale, l’importo dei contributi previdenziali a carico suo e del datore di lavoro (circa il 33% della retribuzione), non più versati all’ente previdenziale di riferimento.

Ferma restando la probabile valutazione di indifferenza economica del bonus, reputo tuttavia che su di esso vada espresso un giudizio di fondo positivo. Rispetto ad altre  forme di incentivo al posticipo pensionistico, contenute in precedenti disposizioni legislative, il bonus Maroni si è caratterizzato per la cogenza, nei riguardi del datore di lavoro, della scelta compiuta dal lavoratore. Esso rappresenta, cioè, il primo provvedimento che di fatto ha impedito la (facile) tendenza ad espellere dall’impresa il lavoratore anziano, appena egli maturi il diritto pensionistico.

E’ noto infatti come il mondo delle imprese si sia largamente giovato per anni della generosità dell’ordinamento pensionistico di base nell’attribuire i diritti di accesso al trattamento di quiescienza, per liberarsi sistematicamente dei lavoratori anziani, risorsa certo più costosa e assai meno duttile di un giovane. Ebbene, il bonus Maroni ha posto alla ribalta del mondo delle imprese un centrale problema di gestione delle risorse umane: l’utilizzo in azienda del lavoratore anziano. In questa ottica va paradossalmente valutato come un risultato positivo anche il nulla di fatto circa la proposta avanzata l’estate scorsa da Nicola Rossi, che suggeriva di effettuare una manovra di prepensionamento di 200.000 dipendenti pubblici. Essa conteneva un’inaccettabile componente diseducativa per tutto il mondo del lavoro e un’implicita ennesima rinuncia ad avviare un nuovo discorso di cultura d’impresa: anche lo Stato avrebbe “abusato” dello strumento pensionistico, per compiere una ristrutturazione aziendale. La strada da percorrere è invece diversa: se da un lato, infatti, oggettivi elementi demografici impongono al legislatore una graduale elevazione dell’età di accesso all’assegno pensionistico, dall’altro gli stessi elementi costringono a porre al centro del dibattito le modalità di “utilizzo” del lavoratore “canuto”. Se le imprese, infatti, hanno titolo di “pretendere” che l’invecchiamento dei dipendenti non sia di per sé un moltiplicatore di costi esse hanno, tuttavia, il dovere di porre in essere, ad esempio, piani di formazione permanente e cercare di individuare nuove ipotesi di collocazione funzionale dei lavoratori o di assetto stesso del rapporto di lavoro – penso al part-time – per le risorse umane ultracinquantenni e ultrasessantenni.

Per un verso, quindi, l’ordinamento previdenziale, sulla spinta di oggettivi fattori demografici, è costretto a disporre una graduale crescita delle soglie anagrafiche di accesso al pensionamento, per altro verso, l’interesse produttivo delle imprese e la salvaguardia della dignità dei lavoratori impone l’immediato avvio di un innovativo, coraggioso e lungimirante discorso di gestione delle risorse umane attempate. L’eccessivo frazionamento dell’impresa italiana rende certo ancor più ardua la sfida, ma reputo che ormai si possa dare quale dato quasi acquisito dai più che il fenomeno dell’invecchiamento, nella nostra realtà nazionale, è questione che travalica largamente gli angusti ambiti dell’orticello previdenziale, per coinvolgere la società tutta, nei suoi diversi aspetti, a cominciare dal mondo del lavoro e della produzione.