Qualcuno ricorderà la mozione passata nel consiglio comunale di Hérouxville, nella provincia canadese del Québec, il 25 gennaio 2007, la quale stabiliva che a tutti i nuovi immigrati si dovesse distribuire un manifesto che li informava di che cosa si poteva NON fare, se avessero scelto di vivere proprio a Hérouxville. Qui, diceva il manifesto, nessuno è obbligato a mettersi in maschera (nemmeno dunque un velo). Qui nessuno è obbligato a portare un’arma a scuola (nemmeno un pugnale cerimoniale). Qui nessuna palestra è obbligata a tappare le finestre per non consentire la visione di donne discinte che fanno ginnastica. Qui a scuola si può anche insegnare biologia ed evoluzione. Inoltre, qui a Hérouxville una donna può guidare l’auto, firmare assegni, votare, ballare, decidere, parlare e vestirsi come vuole. Il messaggio era fin troppo chiaro nella sua ingenuità: cari fondamentalisti, siate voi musulmani, sikh, ebrei (ma anche cristiani), se venite a stare a Hérouxville, sappiate che questo è un paese in cui vigono le libertà di espressione e di comportamento del mondo occidentale.
Ne avevamo allora scritto ricordando come, con quote di 250.000 nuovi immigrati che entrano in Canada ogni anno, più una quota illimitata di rifugiati politici (quasi tutti provenienti da luoghi in cui il fondamentalismo religioso è all’ordine del giorno) come può anche il paese più piccolo e sperduto ritenersi immune da quello che sembra essere il vero problema del mondo occidentale: la ricerca (o il rifiuto) della convivenza tollerante tra gli individui? Il manifesto di Hérouxville ci era parso tanto più interessante in quanto nasceva in un paese, il Canada, che credeva di avere anticipato di una generazione i nuovi problemi delle società multiculturali in cui oggi si dibatte il mondo occidentale, un paese che aveva proposto e applicato soluzioni apparentemente moderne, illuminate e, soprattutto, funzionanti.
Ora il Canada è tornato sulla prima pagina del Corriere della Sera (28 maggio) non per via di un nuovo caso Hérouxville, ma per lo scandalo del ministro (ora ex) degli esteri canadese, Maxime Bernier, deposto dal suo primo ministro, il conservatore Stephen Harper, per aver dimenticato carte riservate in casa della sua bella.
In realtà, Bernier, nominato al ministero degli esteri nell’agosto 2007 a seguito di un rimpasto ministeriale non tanto per il suo curriculum specifico (è soprattutto un economista interessato alle relazioni interprovinciali e aveva fino ad allora ricoperto la carica di ministro dell’industria), quanto per il suo peso politico nella fondamentale provincia del Québec, era stato spesso messo in croce per la sua incompetenza. L’ultima sua gaffe (sempre che sia davvero avvenuta in questi ultimi giorni), ha probabilmente fornito al primo ministro, che aveva rifiutato pubblicamente di censurarne le vicende sentimentali, l’occasione o la scusa ufficiale per sostituirlo.
Ma se la storia di Bernier è già finita con tipica rapidità da parlamentarismo di tradizione britannica, è invece proprio sul caso Hérouxville e sulle sue conseguenze che è il caso di tornare, perché quegli stessi problemi che hanno agitato e agitano il Québec sono un po’ anche i nostri. Tanto per cominciare, il primo ministro della provincia, il liberale Jean Charest (che certo non è né un bieco reazionario né un nazionalista revanchista), ha affermato pubblicamente che lui il croficisso dal muro dell’Assemblea Nazionale del Québec (il parlamento provinciale) non lo farà mai tirare giù in nome di chissà quale espressione di buona volontà "interculturale": "Quel crocifisso rappresenta 350 anni di storia del Québec che, insieme alla presenza della Chiesa cattolica, nessuno sarà mai in grado di cancellare. Questa è la realtà. Coloro che vengono a stare nel Québec devono sapere che entrano a far parte di una società che si è formata in quella storia, che è quella di ciascuno di noi".
L’intervento di Charest non giunge a caso. Dopo i fatti di Hérouxville e l’evidente tensione etnica che serpeggiava per il paese (si tratta sì di una provincia del Canada, ma i quebecchesi, francofoni a larghissima maggioranza, si considerano una "nazione" e un "paese" distinto e a sé stante), nel febbraio 2007 proprio Charest aveva creato una commissione parlamentare detta "Commissione sulle Pratiche di Rimodulazione Legate alle Differenze Culturali", incaricata di verificare se le pratiche in corso si conformassero " a quei valori di pluralismo, di democrazia e di eguaglianza propri della società quebecchese".
Oltre al manifesto di Hérouxville, giravano infatti le voci più strane. Ebrei ortodossi che rifiutavano donne nelle commissioni esaminatrici per gli esami della patente di guida. Musulmani che si presentavano alle sagre primaverili dello zucchero d’acero e pretendevano che venisse cucinata per loro una minestra di piselli senza prosciutto (la ricetta tipica quebecchese lo richiede) e impedivano agli altri partecipanti in festa l’accesso alla sala da ballo per usare la stessa per le loro preghiere. Donne musulmane che impedivano ai mariti delle altre donne di prendere parte ai corsi preparto. E così via. Leggende metropolitane o realtà? Non ci si stava spingendo troppo oltre nel cercare di venire incontro alle esigenze dei fondamentalisti delle nuove comunità culturali e religiose?
Charest aveva nominato a capo della Commissione due personalità intellettuali di alto profilo, il sociologo e storico Gérard Bouchard (francofono) e il filosofo e politologo Charles Taylor (anglofono), entrambi studiosi del fenomeno dell’identità e dell’incontro tra culture. Ora questa commissione, secondo le regole del parlamentarismo britannico, ha fatto le sue "raccomandazioni" al governo provinciale che l’ha nominata. Sta ora a quest’ultimo mettere in pratica tali raccomandazioni, o chiuderle in un cassetto e dimenticarle. Una di queste raccomandazioni era l’eliminazione del crocifisso dall’aula dell’Assemblea Nazionale. Charest, come abbiamo già detto, ha già rifiutato di accoglierla. Ma le altre?
Ricordiamone qualcuna. Basta con le preghiere all’inizio delle riunioni pubbliche. I rappresentanti della provincia (che equivale a ciò che in Italia chiamiamo Stato), vale a dire i giudici e le forze dell’ordine, non devono portare alcun simbolo di carattere religioso (come il turbante sikh o il velo musulmano), ma ciò è consentito tanto ai docenti della scuola pubblica quanto agli impiegati statali o del settore della sanità, nonché a studenti e pazienti. Nessuno studente può rifiutarsi di seguire un corso scolastico obbligatorio (biologia o ginnastica, per esempio). L’esistenza di luoghi di preghiera nelle scuole siano consentiti, ma non resi obbligatori. A nessun paziente sia permesso rifiutare l’assistenza sanitaria in base al sesso del medico o dell’infermiere. Venga distribuito un calendario provinciale ufficiale in cui si dia conto di tutte le festività religiose per tutte le denominazioni. L’Assemblea Nazionale approvi una legge che definisca e promuova l’Interculturalità.
Qualcuno potrebbe obiettare che, dopo un anno di lavoro e cinque milioni di dollari spesi, si sarebbe forse sperato in qualche soluzione più originale, e magari in una riaffermazione più decisa della tradizione occidentale della società quebecchese. In realtà, le raccomandazioni della Commissione sono improntate, in linea di massima, al più puro buon senso, e di fatto mettono in buona forma quanto già normalmente succede. La filosofia di base della Commissione è che le peggiori espressioni del fondamentalismo religioso sono ripartite equamente tra tutte le denominazioni, e che, pur non esistendo una "soluzione immediata" a tali problemi, il miglior modo per stemperarli è concedere un po’ più spazio alle esigenze religiose dei nuovi immigrati (soprattutto musulmani, sikh ed ebrei, si direbbe), togliendone un po’ alla tradizione cristiana. Di fatto, è quanto sta succedendo in tutto il mondo occidentale. Dovunque, il vero problema sta nella misura nello spostamento e nell’identificazione di alcuni valori universali su cui il mondo occidentale non può, e non deve, transigere.
L’unica vera novità contenuta nel rapporto della Commissione è rappresentata dalla richiesta di dare all’Interculturalismo la forma di una nuova legge. Che cosa voglia dire esattamente "interculturalismo", in realtà nessuno lo sa, ed è anche per questo che c’è bisogno di una nuova legge. L’idea di fondo sembra quella di riprendere a livello provinciale la Legge sul Multiculturalismo, imposta a livello federale dal primo ministro Pierre Elliott Trudeau (1919-2000) nel 1988, e di innestarla sulla realtà francofona della provincia del Québec. Questa misura però va in realtà contro a quelle raccomandazioni "di buon senso" che improntano il resto del rapporto della Commissione. Da una parte, si va nella tradizione della Common Law britannica (che aveva funzionato così bene fino agli anni settanta). Dall’altra, si cade nel normativismo etico di stampo appunto trudeauiano, che si illude di trovare soluzioni ai problemi di convivenza tra le culture (nonché le religioni) attraverso l’imposizione di leggi scritte a carattere assoluto (la Costituzione, la Carta dei Diritti, la legge sul Multiculturalismo, etc.).
La nostra previsione è che il rapporto Bouchard-Taylor rimarrà lettera morta, e che verranno applicate solo quelle raccomandazioni che già esistono nella norma della vita di tutti i giorni. La nostra speranza è che non si ripeta a livello provinciale, con una legge sull’interculturalismo, l’errore fondamentale dell’esistenza stessa di una Legge sul Multiculturalismo.