Il caro prezzo dell’intervento italiano nella Prima Guerra mondiale
28 Ottobre 2013
Caduto Giolitti, nel marzo del 1914 si era insediato un fragile governo guidato dal conservatore Antonio Salandra. Nessuno avrebbe pensato che proprio su questo quasi sconosciuto uomo politico sarebbe gravata una delle più importanti decisioni di tutta la storia d’Italia. La “bomba” scoppiò in un apparentemente tranquillo 28 giugno, a Sarajevo, uno degli infiniti avamposti dello sterminato e ancora potente Impero austro-ungarico il quale, da alcuni decenni, era costretto a domare le ribellioni delle grandi minoranze italiane, ungheresi, e slave.
Fu proprio per mano di uno slavo, il bosniaco Gavrilo Princip, che il principe ereditario Arciduca Francesco Ferdinando, destinato a succedere all’eterno regno di Francesco Giuseppe (sul trono dal 1848, quando in Piemonte c’era ancora Carlo Alberto e Pio IX regnava da soli due anni) venne assassinato a colpi di rivoltella.
La reazione dell’Austria fu sproporzionata quanto poco ragionevole; non solo non fu mai accertata la responsabilità diretta del governo serbo ma, più verosimilmente, si trattò di un pretesto piuttosto banale per accendere una miccia destinata, secondo i piani di Vienna, a risolversi con l’ennesima annessione di uno stato libero al loro grande Impero. Nessuno, almeno per ora, poteva immaginare che stavolta la situazione avrebbe preso una piega inaspettatamente drammatica.
La situazione che si presentò alle diplomazie pochi giorni dopo l’accaduto era la seguente: l’Austria, legata alla Germania (e all’Italia) dalla Triplice alleanza presentò un ultimatum alla Serbia seguendo una tradizione che risaliva ai tempi di Catone il censore. Ben conoscendo l’impossibilità serba di mettere in atto quanto minacciato con l’ultimatum questo era, a tutti gli effetti, un “avviso di garanzia” che avrebbe preceduto di pochi giorni la dichiarazione di guerra.
L’Italia però, di questa manovra, non venne informata e grande fu lo sconcerto presso Roma quando il governo italiano apprese di essere stato lasciato all’oscuro. Ben presto questo mancato avvertimento fornì ulteriori pretesti agli italiani, di lì a poco tempo, per sentirsi autorizzati a rovesciare il tavolo e passare dalla parte dell’Intesa; nel frattempo, cominciando a fare cinici calcoli su quale tra le due alleanze avrebbe garantito maggiori annessioni territoriali, il nostro governo, supportato dalla ancor forte maggioranza parlamentare giolittiana, preferì mantenersi neutrale, appellandosi a un cavillo del trattato che consentiva all’Italia il non intervento.
Se proprio fosse stato necessario scendere in campo, da una parte o dall’altra, l’Italia lo avrebbe certamente fatto, ma a care condizioni. Almeno apparentemente, questa, sul fronte interno, fu la decisione che accontentò un po’ tutti: i cattolici, i socialisti per non parlare dei giolittiani. Ma era evidente a tutti che il non intervento non avrebbe consentito all’Italia una neutralità piena e duratura. Tuttavia, quel trattato d’alleanza firmato a fianco degli eterni nemici austriaci, rappresentò fin dal momento della sua stipula un vulnus in gran parte dell’opinione pubblica. Gli irridentisti, che reclamavano da decenni le terre di Trento e Trieste, furono tra i primi a spingere per una guerra contro gli Imperi centrali.
Lo stesso Mussolini, specie dopo il recente congresso molto influente all’interno del partito socialista, dopo una iniziale contrarietà, era diventato un campione degli interventisti. Per questo fondò un giornale tutto suo e venne espulso dal partito. Un evento dai più ritenuto marginale ma che invece avrebbe condizionato la storia d’Italia per più di un trentennio.
E poi, forse il più suadente di tutti, vi era Gabriele d’Annunzio, che incarnava in pieno lo spirito eterno di rivincita per una nazione (quella austriaca) che, secondo la pubblica opinione, opprimeva e umiliava ancora. Secondo d’Annunzio non c’era migliore occasione per vendicare la seconda guerra d’indipendenza, vinta grazie all’aiuto dei francesi e la terza guerra d’indipendenza, persa a Lissa, ma dalla quale avevamo ottenuto il Veneto come una elemosina concessaci dal vero vincitore, la Prussia. Certo che la vera ragione fu, ancora una volta, tutta diplomatica. Il governo, con Sidney Sonnino subentrato al ministero degli esteri allo scomparso San Giuliano, cominciando ad intavolare trattative con in palio la discesa in campo italiana, sondò tutte le cancellerie.
L’Austria, che da sempre vedeva l’Italia come un intruso infido al gotha delle potenze, cercò comunque di accontentare gli italiani i quali, nei loro calcoli, avrebbero sicuramente creato più problemi se avessero deciso di scendere in campo con l’Intesa. A Sonnino, che chiedeva Trento (col Sud Tirolo) e Trieste, l’Austria rispose che era disposta a cedere il solo il primo. “A chi mi punta la pistola darei anche il portafogli se solo la pistola fosse carica” disse in modo spregiativo Burian al suo omologo Sonnino. Questa frase sprezzante fornì a Sonnino un non piccolo ripiego per saltare in braccio alle potenze dell’Intesa. E l’Austria lo avrebbe capito ben presto.
(Fine della Quarta puntata, continua…)