Il caso Cosentino e l’imperialismo del diritto
15 Gennaio 2012
Luigi Compagna, senatore del PDL e stimato docente di ‘Storia delle dottrine politiche’, ha scritto un articolo in difesa del voto della Camera, che ha salvato, per la seconda volta, il coordinatore del Pdl campano dall’arresto, Quello contro Nicola Cosentino è un processo politico non dichiarato (L’Occidentale 12 gennaio 2012), nel quale, in poche righe, viene messa a fuoco una deriva illiberale della nostra cultura giuridica e politica.
<Si è radicata in Italia, complici i Caselli e i Mannoia, poi gli Ingroia e i Ciancimino e con loro i nostrani De Magistris, Narducci, Woodcock, una connotazione dei reati associativi sempre più preventiva e sempre meno repressiva, con evidente anticipazione della tutela, connessa alla lesione o alla messa in pericolo di un bene giuridico sfuggente e impalpabile quale il cosiddetto "ordine pubblico". In nome dell’"ordine pubblico" qualcuno diventa "nemico pubblico", bersaglio da eliminare politicamente, benché su di lui giuridicamente ogni ipotesi accusatoria derivi soltanto da pentiti. Il carcere deve essere per forza di cose preventivo e prescindere da ogni accertamento dibattimentale. Si innesta qui quel che è capitato a Cosentino, da sempre indagato ben oltre i limiti di tempo e di confini della competenza, destinatario di una sorta di procedura ad personam nella quale l’elemento della consapevolezza rimane estraneo all’accertamento investigativo>.
Uno studioso onesto, come Compagna, che si è formato sul costituzionalismo ottocentesco, non poteva non registrare un paradosso che avrebbe fatto trasalire i classici del liberalismo del secolo d’oro delle ideologie: ovvero che, in Italia, l’ordine giudiziario sarebbe stato tentato di subordinare a sé gli altri poteri dello Stato, a cominciare da quello legislativo, liberamente eletto dal popolo sovrano (siamo in democrazia, non nella repubblica di Platone, dove governano <quelli che sanno>, ad es., districarsi tra le 150 mila e più leggi che, come i lacci lillipuziani dei Viaggi di Gulliver, incatenano il demos).
Il discorso di Compagna non fa una grinza, c’è però un <ma> ed è un ‘ma’grande come l’Everest. Ho l’impressione, infatti, che, nel nostro paese, si stia perdendo una distinzione fondamentale, non per la ‘civiltà del diritto’ ma per la civiltà tout court, ovvero la distinzione tra etica, in senso forte, e diritto. Ci sono comportamenti e profili morali che non possono venire perseguiti dal giudice ma che individuano tipi umani del tutto inaffidabili. In fondo i veri, grandi criminali, sono quelli che si muovono ai confini del reato, evitando bene di mettere il piede dall’altra parte (grazie anche, diciamolo pure, alla pletora di avvocati che possono pagarsi). Sennonché la fedina penale pulita (fino a quando resterà tale) non dà alcun diritto ad essere considerato un galantuomo e, se non si è un galantuomo, sarebbe meglio tenersi lontano dalla politica. In fondo, nella vecchia filosofia del collegio uninominale, c’era anche questo: il rapporto di fiducia e di stima che legava il candidato ai suoi elettori, il fatto che gli elettori sapevano bene chi li avrebbe rappresentati e potevano scegliere uomini dalla vita intemerata — professionisti seri, coscienziosi padri di famiglia.
Ci sono sempre stati, beninteso, onesti e farabutti ma facce come quella dell’avvocato Willie Heinrich, –interpretato da Walter Matthau, nel film di Billy Wilder, Non per soldi ma per denaro (1966), che ogni volta che gli stringeva la mano il cognato Harry Hinkle (Jack Lemmon) controllava che il portafogli fosse al suo posto—dovrebbero essere utilizzate, nell’ombra, per quei ‘lavori sporchi’ di cui non può fare a meno, in virtù del legno storto di cui parlava Kant, né la ‘piccola politica’ dei partiti, né la ‘grande politica’ degli Stati.
Anni fa, agli amici e colleghi di sinistra che ironizzavano sul ‘puritanismo’ americano e sulle candidature politiche bruciate da rivelazioni piccanti su vite private costellate da tradimenti, puttane e menzogne, replicavo: <è la democrazia, bellezza!>. In democrazia, la classe politica non è un Olimpo di notabili intoccabili cui viene concessa la ‘libertà libertina’ riservata, nell’antichità greco-romana agli dei e agli eroi. L’uomo della strada, titolare della sovranità, vuole che il suo eletto non sia ‘elite’ ma uno come lui, che non dissipa il denaro (se lo ha) e non organizza festini trimalcioneschi.
Forse in tutto questo c’è una buona dose d’ipocrisia piccolo-borghese e, sicuramente, è una pretesa eccessiva volere che il politico sia uno ‘stinco di santo’ ma, all’interno di una considerazione realistica (e, perché no?,machiavelliana) della politica, anche la <stima pubblica> è una risorsa di potere e di influenza e moralistico, semmai, diviene il non volerne tener conto, in nome di un ‘virtuismo antivirtuistico’ che, come tutti i moralismi, vorrebbe cambiare cuori e cervelli della gente. L’avvocato Willie Heinrich, insomma, è meglio che non si faccia vedere in giro e che i suoi difensori d’ufficio non dimentichino mai che se <l’ipocrisia è l’omaggio reso dal vizio alla virtù>, è meglio l’omaggio che l’oltraggio. Il moralismo degli antimoralisti è, per molti aspetti, analogo al fascismo degli antifascisti, oggetto del sarcasmo del geniale Ennio Flaiano.
Non si può, nella difesa di Cosentino, com’è stato fatto (ma non dall’ottimo Luigi Compagna), citare la brillante battuta di Gaetano Salvemini:<se mi accusano di aver rubato la madonnina del duomo di Milano, prima fuggo all’estero poi penso a difendermi>. Cosentino non è certo Salvemini: i reati di cui viene accusato non sono stati provati, finora, alcun tribunale e, pertanto, è comprensibile e condivisibile la decisione dei radicali di votare no al suo arresto. Rimane il fatto che difficilmente un uomo perbene si assocerebbe in affari con un tipo simile—sol che si pensi alla vicenda che ha coinvolto, nelle elezioni regionali campane, il governatore Stefano Caldoro– e se gli venisse mai presentato si rifiuterebbe di stringergli la mano, come fece il vecchio Presidente Ike Eisenhower quando si trovò dinanzi Joseph McCarty.
Non vorrei che, per qualche ipergarantista, tale rifiuto potesse configurarsi come un reato. La giuridicizzazione dell’etica—per cui <la colpa (morale) diventa reato>—, alla quale hanno tanto contribuito i giudici, temuti da Piero Calamandrei, che <vogliono far giustizia> e non si accontentano di <applicare il diritto>, è un’arma a doppio taglio giacché la massima che l’ispira potrebbe venir seguita dall’altra: <se non c’è reato, non c’è neppure colpa (morale)>. Di questo passo, si arriva al <diritto alla stima> ovvero all’obbligo—già teorizzato da qualche filosofo liberal nordamericano– di ritenere rispettabili e dignitosi modelli di vita che la coscienza non approva (ad esempio, l’adozione gay) per il semplice motivo che una legge dello Stato li rende leciti. Nicola Cosentino non viene condannato? E allora va considerato ‘nu bbuone guaglione’ e la sanzione (non giudiziaria) ma etica, che si traduce nel ritiro della stima da parte dell’opinione pubblica sarebbe solo un retaggio di età barbariche.