Il caso Crisanti: apologia della scienza in un mondo di stregoni
24 Novembre 2020
di Aldo Vitale
«La scienza non conosce certezze apodittiche né definitive o ultime, immuni da critiche»: così il premio Nobel per la medicina del 1960, conferitogli per i suoi studi sul sistema immunitario, Peter Medawar ha sintetizzato la natura della scienza, il suo metodo, il suo fine.
Oggi, tuttavia, si vive un paradosso, quello per cui proprio nell’epoca attuale di massimo espansionismo culturale del sapere scientifico, si nutre, sia da parte dell’opinione pubblica, sia da parte della stragrande maggioranza degli scienziati, una visione a-critica della scienza, rivelandosi nei confronti di quest’ultima un atteggiamento fideistico più tipico degli stregoni piuttosto che quello razionalista che dovrebbe contraddistinguere gli uomini di scienza.
Se gli innumerevoli esempi della storia recente non fossero sufficientemente chiari, potrebbe diventare perfettamente paradigmatico quello che oramai è stato definito come “il caso Crisanti”, cioè il caso che in queste ore sta animando il pubblico dibattito sulle dichiarazioni compiute dal Dott. Andrea Crisanti, ovvero il medico che durante la fase apicale del marzo 2020 della pandemia Covid-19 ha scoperto che la maggior parte delle persone infette erano portatori asintomatici, il quale ha dichiarato che «che sulle basi delle conoscenze che abbiamo oggi non mi farei il vaccino. Se dovessero rendere pubblici i dati e la comunità scientifica ne validasse la bontà me lo farei, non ho alcun dubbio su questo».
Le esternazioni di Crisanti hanno immediatamente suscitato un vespaio di polemiche, tanto da anatemizzarlo con l’appellativo di “negazionista”, facendolo precipitare, saettante come un arcangelo decaduto, dalle altezze dell’empireo dei santi della somma verità scientifica verso il centro delle schiere della vile plebaglia infernale dei negazionisti nella sua nuova qualità di pubblico eresiarca da condannare inesorabilmente al rogo mediatico.
Ma è proprio così? Come osa opporsi questo novello apostata alla solida infallibilità dei gran sacerdoti della “chiesa” dell’attuale scientismo (cioè di quella scienza che si presume incriticabile)? Sbaglia Crisanti ad apportare un pensiero pacatamente e ragionevolmente critico in un mondo istericamente irriflessivo quale è quello attuale dominato dal coronavirus? Erra davvero questo “piccolo” medico ad uscire dal grande gregge sicuro dell’ortodossia scientifica per smarrirsi negli oscuri e tortuosi sentieri del dubbio gettando scandalo e inducendo in errore il sacro popolo di quel dio moderno che è la incriticabile scienza odierna?
Polemiche a parte, mettendo da parte l’incensiere o il maglio della demonizzazione, cioè cercando di affrontare il tema in modo razionale e ragionevole, non si può che ritenere epistemologicamente corretta e scientificamente autentica la posizione di Crisanti (prescindendo da ogni altra valutazione soggettiva e opinabile sul personaggio), come di chiunque altro la condividesse, e, almeno su questo profilo, radicalmente fasulla quella dei suoi detrattori, e ciò per tre ordini di ragione.
In primo luogo, viene in rilievo il profilo metodologico: qui non si intende né negare l’utilità o la necessità dei vaccini, né entrare nel merito di quale vaccino sia migliore o peggiore dei suoi omologhi. Il problema è puramente di metodo scientifico, poiché date le strettissime tempistiche dei pochi mesi intercorsi, nonostante siano rispettati tutti i numerosi e rigidi protocolli che la comunità scientifica è tenuta a seguire al fine di creare un nuovo vaccino, nonostante i controlli e le sacrosante ridondanze dei sistemi di vigilanza che le varie agenzie del farmaco nazionali eseguiranno o hanno già eseguito, non si può ritenere in scienza e coscienza che sul breve, o peggio, sul lungo periodo non vi possano essere effetti collaterali.
L’esclusione degli eventuali effetti collaterali, infatti, può e deve essere ipotizzata proprio in ossequio al rigore scientifico, e può e deve essere garantita non fideisticamente, ma in modo scientificamente corretto, cioè ammettendo che proprio in ragione della ristrettezza dei tempi non si può garantire – almeno per ora – in modo infallibile e assoluto.
Ecco perché le parole di Crisanti non dovrebbero suscitare scandalo, ma dovrebbero invece destare orrore quelle dei suoi detrattori, e non già per adesione eclettica al bizzarro e folle popolo dei no-vax, quanto per ossequio a quello spirito di verità che dovrebbe animare chiunque abbia un sano e robusto animo scientifico, cioè razionale e critico.
In secondo luogo, viene in rilievo il profilo etico: un vero uomo di scienza che tale si presume essere, deve agire non soltanto in scienza, ma anche in coscienza, motivo per cui l’adozione del principio di precauzione – dinnanzi ad una situazione “liquida” quale è quella attuale – non è da biasimare, ma da auspicare, rivelandosi, ancora una volta come Crisanti abbia pronunciato parole non soltanto metodologicamente corrette, ma anche eticamente prudenti.
In terzo luogo, viene in rilievo il profilo giuridico: è sempre bene ricordare, infatti, che la Costituzione italiana garantisce la libertà di pensiero, di parola di coscienza e di scienza, così che anche se Crisanti avesse detto qualcosa di sbagliato godrebbe comunque del diritto di poterlo dire senza che un potere censorio ne possa mutilare una tale libertà.
Il “diritto d’errore”, come amava definirlo Karl Popper, infatti, è il diritto su cui si edifica un sano dibattito democratico e un sano sviluppo scientifico, poiché solo su di esso si può correggere la rotta che conduce alla verità.
Tutta la vicenda è insomma ben più grande e vasta sia di Crisanti che dei suoi detrattori, e dice molto sulla sventurata epoca che la scienza odierna sta vivendo e sulla sua sostanziale “immaturità filosofica” che non consente ai suoi protagonisti di interpellare davvero criticamente se stessi, la propria disciplina e l’importante ruolo pubblico e culturale che sono chiamati, oltre che a ricoprire, soprattutto e prima di tutto a capire; diversamente da costoro, tuttavia, gli si riconosce quel diritto d’errore che essi ad altri negano, nella speranza di un sollecito ragionevole e razionale ravvedimento.