Il caso Ruby dimostra quanto in Italia sia necessario riformare la giustizia

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Il caso Ruby dimostra quanto in Italia sia necessario riformare la giustizia

07 Marzo 2011

La decisione di Berlusconi di dedicare il lunedì alla presenza in Tribunale è un atto che tutti saranno costretti a dichiarare di apprezzare, ben sapendo che renderà evidente l’asimmetricità di una situazione istituzionale per evitare la quale il costituente del 1948 aveva introdotto l’immunità. La Corte Costituzionale per bocca del suo Presidente richiama il Parlamento a non legiferare contro la Costituzione ma non si pronuncia sulle ripetute violazioni della separazione dei poteri dello Stato. 

Si lancia invece nell’affermazione che la Costituzione fornisce legittimazione alla sovranità popolare del Parlamento (e non viceversa), donde – sembra doversi dedurre – se il Parlamento emana una legge incostituzionale la Corte deve intervenire oltre che a tutela della Costituzione a tutela della sovranità popolare. Un’interpretazione progrediente del dettato costituzionale che vuole la Corte organo politicamente neutro e comunque tecnico.

Le riflessioni del presidente della Corte Costituzionale seguono di poco le parole, altrettanto innovative, del Capo dello Stato sulla necessità di sciogliere le Camere in caso di eccessiva tensione istituzionale, il che alimenterà l’eccitazione della Sinistra e i sospetti della Destra. In questo contesto non stupisce che crei tensione la decisione di sollevare il conflitto di attribuzione fra Parlamento e Ordine giudiziario sul rifiuto della magistratura di trasferire il processo contro Berlusconi al giudice naturale (il Tribunale dei Ministri).

Ancorché non c’è dubbio che il Parlamento abbia piena legittimazione di contestare lo sconfinamento di qualunque tribunale nel territorio del potere legislativo. Sulla tripartizione dei poteri dello Stato e sul divieto assoluto di ciascun potere a sottrarsi alle decisioni dell’altro (separazione e sovranità dei poteri) sono state scritte centinaia di migliaia di pagine. Ma sono passati due, no, tre secoli senza che nessuno abbia avuto il coraggio di riflettere sulla scoperta della Democrazia che quei poteri dello Stato non possono più dirsi equivalenti ancorchè neppure gerarchizzati.

L’universalizzazione del diritto di voto e l’esaltazione della partecipazione politica costringono infatti oggi a qualificare la legittimazione delle istituzioni anche in ragione della rappresentatività più o meno diretta rispetto al Corpo elettorale. La retrospettività della posizione interpretativa classica sarebbe peraltro sopportabile se una strategia politica, ideata dalla Sinistra ma coltivata dall’Ordine Giudiziario, non la utilizzasse per impedire il reset del sistema cancellando l’attuale asimmetria fra potere legislativo ed esecutivo da un lato e giurisdizionale dall’altro.

Il monopolio ermeneutico sull’ampiezza dei principi "la legge è uguale per tutt"i e "la giustizia è esercitata in nome del Popolo italiano" condiziona infatti l’indipendenza del Governo e del Parlamento perché l’attività dei loro esponenti è esposta alla insindacabile valutazione del potere giurisdizionale. Mentre l’assenza di responsabilità per gli atti d’esercizio del potere giudiziario e la qualità domestica dell’Organo di disciplina collocano i magistrati in una condizione sconosciuta anche ai parlamentari della Prima Repubblica.

L’asimmetria in atto è tale che neppure il conflitto di attribuzione può risolverla. Ammesso infatti che questo abbia esito favorevole (come dovrebbe essere) a decidere chi deve giudicare il presidente Berlusconi per il caso Ruby sarà comunque la Cassazione, la quale – questo l’unico vantaggio – dovrebbe pronunciarsi subito anziché…. chissà quando. La Procura e il GIP di Milano sanno bene che il reato contestato a Berlusconi è ministeriale ma l’inesistenza di sanzioni gli hanno consentito di chiedere e decidere che a giudicarlo sia il giudice scelto dalla Procura ancorché non coincidente con quello fissato dalla legge.

Si rallegrino gli italiani: in questo caso il Presidente del Consiglio è stato trattato come gli imputati comuni perché il suo caso rientra nei nove su dieci per i quali il giudice si afferma competente ancorché le norme dicano altro. Va così da cinquantanni e andrà così fin tanto che pubblici ministeri e giudici parteciperanno dello stesso status e della possibilità di trasferirsi dall’ufficio dell’accusa all’ufficio giudicante e viceversa.