Il caso Telecom è lo specchio del paese
10 Aprile 2007
“… per ciò oserò affermare che, non solo come uomo, ma come suddito britannico, mi auguro la prosperità commerciale della Germania, della Spagna, dell’Italia e persino della Francia”. Con questo celebre brano tratto da Della rivalità del commercio, il filosofo David Hume, pur non riuscendo a liberarsi mai fino in fondo dell’abito mentale mercantilista, criticò vivacemente gli atteggiamenti spregiudicati legati al mantenimento di una bilancia commerciale in attivo, mettendo in evidenza le conseguenze del protezionismo sul sistema generale dei prezzi, un protezionismo incapace di comprendere le opportunità provenienti dal libero scambio e che finisce per riconoscere un ruolo positivo al commercio internazionale nella misura in cui arricchendo la parte interessata, depaupera la controparte. Siamo partiti da così lontano per tentare di commentare una vicenda dei nostri giorni, potremmo dire la vicenda del giorno: l’affare Telecom Italia.
Tutti sanno qual è l’oggetto del contendere: il colosso americano della telefonia At&t e i messicani di America Mòvil (in accordo con la Pirelli) intendono mettere le mani su “Olimpia”, l’azionista di controllo della Telecom Italia, ne conseguirebbe che l’azienda telefonica italiana correrebbe il rischio di andare in mani straniere. Non è un tema nuovo nel panorama politico-economico italiano, si ricordi l’uscita di scena dell’ex Governatore della Banca d’Italia Antonio Fazio. Il caso si ripropone oggi, e l’argomento dei protezionisti è sempre lo stesso: “non possiamo cedere un settore strategico allo straniero!”. In primo luogo mi chiedo quale sia un settore non strategico; ai tempi di Quesnay era la terra, ai tempi di Ricardo era il grano, poi è divenuto il carbone, in seguito l’acciaio; e giù, guerre di conquista, politiche coloniali e tregue inconsistenti. Eppure, anche allora, a confrontarsi erano i fautori del mercato libero e quelli del mercato chiuso: pardon per l’ossimoro. Dietro le preoccupazioni dei protezionisti e dei sostenitori del mercato si cela la medesima preoccupazione, la stessa che spinse Adamo Smith a scrivere il suo capolavoro: qual è la natura e la causa della ricchezza delle nazioni?
Sappiamo che i protezionisti ci mettono in guardia contro i rischi di una società dominata dalla scambio, poiché enfatizzano la natura conflittuale delle relazioni economiche, sostenendo che, in uno scambio, il vantaggio ottenuto da una parte non può che coincidere con una perdita della controparte, e di conseguenza invocano l’intervento dell’autorità politica (Rovati docet); è l’economia intesa come un gioco a somma zero che impone una politica ispirata alla morale di Robin Hood. I sostenitori del mercato, al contrario, ritengono che i conflitti siano dovuti all’ineludibile realtà nella quale sono chiamati ad operare gli uomini e le donne di questo mondo: questa realtà è segnata dalla scarsità. Ebbene, in un mondo di risorse scarse i conflitti possono trovare un’armoniosa ricomposizione grazie al libero scambio.
La vicenda Telecom Italia è emblematica di come, sebbene siano trascorsi secoli e siano stati gettati fiumi d’inchiostro, il problema dei padri della scienza economica non sia stato ancora risolto (e chissà se lo sarà mai!). Ciò che impressiona è che non passa giorno che politici, economisti ed intellettuali di ogni specie non si riempiano la bocca di globalizzazione, villaggio globale e multiculturalismo, per poi alzare steccati, barriere e anacronistiche ragioni nazionalistiche non appena si tocchino i cosiddetti “interessi nazionali”. Ma quali sarebbero gli interessi nazionali in un contesto di interdipendenza globale? E poi, siamo così certi che l’interesse nazionale si difenda meglio se impediamo allo “straniero” di entrare? L’affare Telecom è un problema di investimenti in alta tecnologia, investimento quantificato dalla stessa Telecom in oltre sei miliardi di euro. Un cifra – per dirla con le parole di Carlo Scarpa (“Lavoce.info”) – colossale per chiunque, la cui sostenibilità richiederebbe comunque una società con azionisti di un certo peso. Ora, delle due l’una, se l’azionista di controllo, ad oggi, non è in grado di intraprendere la necessaria politica di alti investimenti che collochino l’azienda italiana sul piano qualitativo ai vertici del mercato della telefonia mondiale, o interviene lo Stato, con una clamorosa marcia indietro che, tra l’altro, significherebbe lanciare un pessimo segnale ai mercati internazionali (soprattutto dopo la vicenda Autostrade-Abertis), nazionalizzando le reti, ovvero Telecom si apra effettivamente ai privati, da qualunque nazione provengano; in entrambi i casi, si faccia presto!
Quanto assistiamo oggi è la risultante di un processo di privatizzazione avviato negli anni novanta e guidato da una classe dirigente (politica ed economica) oggettivamente inesperta di economia di mercato, è probabile che fossero maestri delle partecipazioni statali, ma il mercato è un’altra cosa. Si è creduto che privatizzare significasse lottizzare, parcellizzare il patrimonio pubblico in nome di vecchi o nuovi sodalizi politici, mentre il mercato ripugna questa logica.
Il mercato offre opportunità – senza pretendere di rispondere alle grandi questioni esistenziali dell’umanità – nella misura in cui gli operatori mostrano di saperne cogliere le informazioni rilevanti. Il mercato è come un faro che guida gli operatori, ma se il guardiano è ubriaco, inesperto o, peggio …, sarà sua responsabilità, non del faro, sebbene il faro stesso – mal indirizzato – possa essere percepito come causa di enormi disastri. Un sistema alterato, drogato, nel quale gli operatori economici di successo possono vantare l’unico merito di essere i momentanei amici dei governanti di turno, non merita il nome di mercato, ma di consorteria. Magari la si può preferire al mercato, può piacere per ragioni estetiche – noblesse oblige, la si può scegliere per ragion di stato, ma non è il mercato.
Il mercato è un sistema di informazioni in forza delle quali gli operatori tentano di soddisfare le proprie aspettative ricorrendo alle aspettative degli altri. È uno strumento umile, non gode della nobiltà e delle liturgie che rendono affascinante – per alcuni – il mondo della politica. L’affare Telecom ci dice una cosa molto seria, che la “cultura” del mercato richiede una speciale abilità, che un autore come Kirzner ha chiamato “prontezza imprenditoriale”. Abilità tipica di figure che un gigante dell’analisi economica come Schumpeter ha sintetizzato con l’espressione “imprenditore innovativo”. Prontezza, innovazione e creatività, ahinoi, non sono prodotte né dal mercato né dalla politica. Richiedono investimenti ingenti che iniziano con la scelta di un uomo e di una donna di generare e di educare figli abili all’assunzione del ragionevole rischio imprenditoriale, continuano nelle scuole di ogni ordine e grado (meglio se in un sistema integrato e competitivo tra scuole di Stato e scuole libere), arrivano fino alle università e prendono corpo nei centri di ricerca che producono tecnologia. Un buon affare costa almeno vent’anni di buoni investimenti. Telecom è soltanto il drammatico sintomo del malessere politico, economico e culturale che interessa il nostro Paese.