
“Il Colibrì” di Veronesi e quell’Italia incapace di sognare

18 Agosto 2020
“Tu sei come un colibrì e come il colibrì metti tutta la tua energia nel restare fermo”. Così Luisa, l’amata sfuggente, a tal punto eterea da non risultare nemmeno un personaggio, descrive Marco, il protagonista de Il Colibrì, l’ultimo romanzo di Sandro Veronesi, vincitore del Premio Strega.
Ho deciso di dedicare qualche ora della mia settimana di ferie a questo romanzo consigliatomi da mia moglie, colpevolmente prevenuto, come sono sempre, nei confronti della letteratura italiana.
Il romanzo di Veronesi mi ha colpito profondamente. Non solo per lo stile, così semplice e prezioso, o per l’architettura della narrazione, superba nel combinare leggerezza e complessità o per i personaggi così rotondi nella loro umanità.
E’ qualcosa di più profondo che mi ha fatto riflettere. Le vite dei protagonisti, i loro sentimenti, le loro avventure, i loro errori, le loro mancanze e debolezze si incrociano creando spirali di dolore, senza tuttavia produrre risultati apparenti, se non quello di confermare l’esistenza di un destino crudele e inevitabile.
Marco Carrera – innamorato di una donna che sceglie di non avere mai e con la quale intratterrà un rapporto epistolare superficiale e patologico, figlio di genitori che non si amano, fratello di una ragazza suicida – sopporta la follia della moglie infedele fino a quando la sua pazzia la porterà troppo lontano; sopravvive alla morte dei propri genitori, addirittura somministrando, lui medico, un’eutanasia domestica al padre sofferente. La sfida più ardua però giunge quando anche la figlia Adele, ragazza madre di poco più di vent’anni con la quale ha costruito un rapporto d’amore morboso, troverà la morte lasciandolo solo al mondo con la nipote Miraijin, alla quale si aggrappa con tutta la forza che ha fino a quando si ammalerà di cancro e, ormai a fine vita, deciderà di ammazzarsi con un’iniezione di potassio.
Marco non ha scelta, non può cambiare la sua vita. Può solo sopravvivere. Così, a fiato sospeso, vittima di sé stesso, circondato da personaggi che fungono da comparse, utili solo per amplificare il suo dolore. Fino alla fine, quando una scelta la compie: quella di uccidersi, di porre fine a tutta quella sofferenza. L’ultimo atto di un uomo schiavo di un destino imperscrutabile e in parte autoinflitto, immobile nel suo mondo di dolore. Un uomo che non può e neppure vuole essere libero.
Ho chiuso il romanzo profondamente scosso. Non ho potuto non pensare che l’autore, con questa storia, volesse regalarci un più ampio affresco del vissuto del nostro paese. Massacrati come siamo dagli eventi, sconvolti dal dolore e dall’incertezza, insicuri in un mondo sempre più lontano, invece di reagire ci dimeniamo per rimanere a galla, con lotte di retroguardia, immobili nei nostri privilegi individuali, arresi ad uno status quo declinante, senza più il coraggio di cambiare. Mi ha colpito Il Colibrì di Veronesi, perché l’ho trovato così simile a noi italiani: ripiegati su sé stessi, inebetiti da un certo vittimismo così efficace nell’attribuire le colpe dei nostri mali a qualcun altro.
L’autore tocca la corda più nera dell’animo di un’Italia incapace di sognare, incapace di scegliere, incapace di vivere. Questo romanzo è uno strumento potente per scuotere le coscienze, per ricordarci che non siamo dei colibrì, ma siamo artefici del nostro destino, siamo nati per scegliere, siamo nati per essere liberi.