Il comunismo non c’è più da anni ma a Mosca la classe media non esiste
08 Novembre 2009
Dunque, eravamo rimasti a Tocqueville. Ma che c’entra – si chiederanno i miei curiosi lettori – il grande scrittore politico con un viaggio in Russia che mi è capitato di fare di recente e con le relative riflessioni in merito che mi sono messa a scrivere su incitamento di un grande amico? C’entra eccome. Vediamo subito perché.
Nella prima puntata ho raccontato l’impressione ricevuta dal primo impatto con la Russia: un paese immusonito. Le uniche persone che sembrano modestamente soddisfatte sono i guardiani (tutte donne) dei grandi musei, che talvolta si spingono fino a rispondere con un pallido sorriso e in un inglese stentato ma comprensibile alle domande dei visitatori (sì, perché i musei russi sono caotici, con percorsi illogici e scarsissime indicazioni, spesso solo in caratteri cirillici): sembra stiano perennemente congratulandosi con se stesse per essere riuscite a lavorare lì, al caldo, a fare sostanzialmente niente, in mezzo al gelo che regna per tanti mesi sul paese.
Dicevo poi, sempre nella prima parte del diario, della eclatante differenza fra i ricchi e i poveri. I ricchi in Russia, a Mosca in particolare, sono ricchissimi, e si differenziano con ogni evidenza da tutti gli altri, che sono invece poveracci: gente che si arrabatta per sopravvivere, che si concentra nella capitale per sfuggire alla mancanza di lavoro del resto del paese, che ha dovuto sostituire una occupazione agricola svolta per generazioni nello stesso luogo (e travolta dalla distruzione delle campagne che si è accelerata negli anni dopo il 1989) con un lavoro urbano, industriale o impiegatizio, e che a volte porta ancora in faccia i colori della terra, l’atteggiamento di chi fino a poco tempo fa viveva in un contesto completamente diverso da questo.
Fra i ricchissimi e i poveracci sembra non esserci niente: nessuna classe, ceto, gruppo, comunità intermedia, che abbia parte delle caratteristiche dei ricchissimi e parte delle caratteristiche dei poveracci, che sia cioè in grado di sopravvivere con decenza e perfino, a momenti, con un certo agio, ma il cui reddito e stile di vita si caratterizzino più per la virtù del risparmio giudizioso che per quella del lusso esibizionista. Come si chiama il soggetto sociale dotato di queste caratteristiche? Sono le mitiche classi medie.
E’ qui che entra in gioco Tocqueville. Chi è, infatti, nella prima metà dell’Ottocento, a parlare, in un celeberrimo libro sulla democrazia americana, delle classi medie come autentica scoperta del Nuovo mondo rispetto al Mondo vecchio? Il nostro Alexis, il quale, non diversamente dagli altri viaggiatori in quel paese ma con forza maggiore e grande incisività, vede nella democrazia intesa come modo di vita il regno di una universale classe media: l’America, che non conosce l’aristocrazia non avendo conosciuto l’ancien régime, gli appare composta da una sola classe diffusa in modo uniforme nel paese: è la classe di chi lavora per vivere, di chi deve fare bene i conti quando si decide a un acquisto, ma anche la classe dei consumatori, anche la classe di chi può fare qualche progetto per il futuro suo e per quello dei suoi eredi.
Fra l’altro, la polemica (implicita ma molto forte) di Tocqueville qui è con il marxismo che sarebbe esploso da lì a qualche anno: per il marxismo esistono borghesi e proletari, per Tocqueville la società europea è ancora molto piena di aristocratici (o meglio, di ex-aristocratici), ma la società nuova (che sarà anche quella europea del futuro) è formata da una classe universale che ha fuso in sé tutte le altre, che ha annullato e reso ininfluenti tutte le altre.
E’ una classe di eguali che, proprio perché molto simili quanto a reddito e stile di vita, sono caratterizzati da un atteggiamento che Tocqueville definisce come invidia: si osservan l’un l’altro, si misurano l’uno con l’altro, cercano di primeggiare, di distinguersi. Tutto questo non è affatto negativo: in questo modo si promuovono intraprendenza e operosità, differenziazione ed emulazione. Sono uomini e donne laboriosi, socievoli, che fanno lavori puliti e leggono i giornali, che vivono in famiglia e mandano i figli a scuola.
Da Tocqueville in poi, le classi medie sono ritenute indispensabili per la democrazia. Tali sono state considerate da uno stuolo di autori; e tali si rivelano a una riflessione che metta a confronto, ad esempio, la composizione sociale e la storia delle società che compongono l’America latina con quella degli Stati Uniti. Mentre per il marxismo ottocentesco la classe dei capitalisti e la classe dei lavoratori nullatenenti dovranno inevitabilmente giungere a uno scontro violento, la società democratica che si mostra a Tocqueville in America fa del tutto a meno del conflitto: la classe media si rivela il cemento di quella società pacifica, dal momento che non ha alcun interesse all’insorgere del conflitto sociale. Ha interesse, invece, al mantenimento della pace, che è l’ambiente più propizio per lo sviluppo economico.
L’unico – ma grave – difetto della classe media è che, per il modo in cui si è sviluppata in America, rischia di soffocare la cultura e i suoi produttori, gli intellettuali: di fatto, nella società americana accade che le idee stentano a nascere e hanno poca fortuna, che il bello è scarsamente apprezzato. Ma questo sembra derivare più dalle caratteristiche che la colonizzazione da parte degli europei ha avuto che non dalla natura della classe media: nel Nuovo mondo la democrazia è nata in una società che di civile aveva ancora molto poco, e ha assunto necessariamente la forma mentis dei cow-boy e dei coltivatori.
L’excursus su Tocqueville per dire che in Russia la classe media non esiste. E si vede. La sua mancanza si traduce, semplicemente, in mancanza di democrazia: Tocqueville aveva ragione da vendere sul nesso fra quella classe e la democrazia, in qualunque modo la si voglia intendere. Lì non solo la classe media manca oggi, ma la storia russa del Novecento sembra si sia accanita a distruggerla non appena spuntava. Gli effetti attuali di questa storia sono davvero pesanti. Il segno più evidente di questa mancanza è il consenso di cui gode il governo di quel paese: ha il merito, secondo la gente, di aver assicurato la fine della fame e di aver portato la pace sociale. Rispetto a questi successi, la repressione dell’opinione pubblica più libera e vivace è solo un piccolo neo.
Un’abitudine storica dei russi è quella del bagno pubblico: caldo, anzi caldissimo, consiste in uno stabilimento diviso generalmente fra maschi e femmine in cui si sta al caldo, poi ci si bagna (i più coraggiosi ci si immergono) con l’acqua fredda, si torna al caldo, ci si batte con le fronde di betulla e via di seguito per alcune ore. Un’esperienza che potrei senz’altro definirla forte: altro che la dolcezza dell’hammam! Qui ti senti un pollo che entra in forno e che poi si cerca all’improvviso di surgelare per picchiarlo alla fine senza pietà: mentre, perplessa, mi percuotevo con la betulla chiedendomi mannaggia! chi me l’aveva fatto fare, una energumena mi strappa la frasca di mano e si mette lei a battermi con energia ben maggiore della mia. Ma guarda un po’ dove mi dovevo cacciare per questa ansia conoscitiva che caratterizza noi intellettuali!
Ho evocato la banya, però, per dire un’altra cosa: mentre in Turchia l’hammam se lo può permettere chiunque, e infatti ci trovi chiunque, in Russia se lo può permettere solo quella fetta della popolazione che coincide con i ricchissimi. Infatti, sbirciando fra i prodotti che quelle donne usavano, vedo che spopolano saponi e creme Chanel, Dior, Yves Saint-Laurent. Ora, questi prodotti non sono alla portata di un russo che si arrabatta: si dirigono esclusivamente a chi può e agli stranieri. Si vendono in negozi enormi che si ritrovano uguali in tutto il paese, senza personalità e con commesse istruite a placcare a uomo chi varca la soglia senza più mollarlo fino ad acquisto effettuato. I russi dicono che i ricchissimi non hanno conquistato onestamente la posizione che occupano, così come i politici. Da quel che ho visto, sono incline a crederlo anch’io.
Per tutto ciò che ho appena detto, la Russia è anche il regno dei tacchi. Tacchi, sì, avete letto bene: quelli che possono essere alti o bassi, larghi o a spillo, e che fanno sembrare basse (ma disinvolte) oppure alte (e, salvo eccezioni, inteccherite) chi li indossa. Beh, le russe sembrano distinguersi nella società a seconda dei tacchi che portano: se sono bassi o inesistenti, vuol dire che non puntano sul fascino femminile oppure che si è povere. Man mano che crescono in altezza, cresce anche l’investimento di chi li indossa sulla sua carica erotica, in proporzione diretta con la sua disponibilità a spendere.
Non ho mai visto una tale quantità di tacchi impossibili tutti insieme. A forma di torre, di spillo, di guglia, di ponte, di trapezio isoscele, di triangolo, perfino di cerchio, alti, impervi, in equilibrio instabile, ma portati con ferrea determinazione da questo esercito di giovani donne. Se io provassi anche solo a infilarmi in una cosa del genere, sarebbe la morte sicura: loro, invece, se ne vanno orgogliose ticchettando, fendono la folla sentendosi l’incarnazione stessa della femminilità e un bell’esempio di consumatrici facoltose. E pensare che proprio sulle donne, e sulla loro promozione nei lavori maschili, aveva puntato molte carte il governo bolscevico! Le donne sono, come sempre, uno degli indicatori più sensibili dello stato di un paese. E lo stato di questo paese, decisamente, non è un granché.