Il Concilio Vaticano II e la lezione di  Karol Wojtyla

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Il Concilio Vaticano II e la lezione di Karol Wojtyla

17 Giugno 2007

Come ebbi modo di scrivere in un articolo apparso qualche mese fa sul “Il Tempo”, commentando un editoriale di Giuliano Ferrara che contestava una certa superficialità di giudizio del prof. Marcello Pera, in merito alle posizioni del Card. Martino, bisogna riconoscere che, per quanto le posizioni di un certo “martinismo” volgarizzato ovvero di una loro banale trasposizione politica sul versante del cosiddetto “cattolicesimo progressista” possano apparire ad alcuni un po’ “stucchevoli” ed “evanescenti”, gli argomenti del cattolicesimo progressista sono pur sempre patrimonio della Chiesa, e quelle posizioni – aggiunge il sottoscritto – meriterebbero un’attenta considerazione.

Lo spunto per tornare sull’argomento mi è offerto dalla triste notizia della morte di uno dei maggiori storici della Chiesa degli ultimi trent’anni. Noto per il suo monumentale studio sul Concilio Vaticano Secondo, Giuseppe Alberigo ha avuto il merito di aver saputo dar vita ad un’autentica scuola di elevatissima valenza accademica e pubblica. Una scuola di pensiero che ha pesantemente influenzato il dibattito teologico e filosofico politico delle ultime decadi. In un articolo apparso sabato 16 giugno 2007 su “Il Giornale”, il bravo vaticanista Andrea Tornielli scrive: “Non si può però fare a meno di osservare che all’‘officina bolognese’, che pure ha goduto di accessi privilegiati alle carte e ai documenti, altre scuole di pensiero non sono state in grado di contrapporre altrettanto approfonditi e completi studi storici”.

A prima vista%2C come non essere d’accordo con Tornelli. Tuttavia, vorrei far rilevare come nel corso di questi ultimi trent’anni non siano mancati autori ed opere di grandi studiosi che si sono presi la briga di offrire un’interpretazione diversa dalla quella della “discontinuità” cara all’Officina bolognese. In particolare, vorrei evidenziare il valore storico e teologico dell’opera di Karol Wojtyla: Alle fonti del rinnovamento. Studio sull’attuazione del Concilio Vaticano II, pubblicata in Polonia nel 1971 a cura dell’Associazione Teologica Polacca ed edita in Italia nel 1981 dalla Libreria Editrice Vaticana. Dopo anni di silenzio e di incomprensibile non curanza da parte delle cosiddette centrali del sapere (è questa la stranezza che Tornelli evita di sottolineare), la Fondazione Novae Terrae e l’Editore Rubbettino hanno acquistato i diritti e contano di riproporre l’opera del Cardinal e professor Wojtyla entro la fine del 2007.

La peculiarità delle posizioni del giovane Wojtyla, studioso del Concilio, rispetto all’Officina bolognese e che lo distingue chiaramente anche dai conservatori tradizionalisti e dai seguaci dell’arcivescovo Lefebvre, ha a che fare in primo luogo con la critica ad una certa interpretazione del Concilio che indubbiamente, merito soprattutto della scuola bolognese, stava divenendo egemone presso i gruppi intellettuali più influenti. Scrive Weigel, probabilmente il biografo più autorevole di Wojtyla: “a darsi battaglia furono due fronti conciliari nettamente distinti, i bravi ‘progressisti’ e i cattivi ‘conservatori’, con la vittoria finale dei primi, malgrado l’intransigenza dei secondi”. Tanto la teologia, quanto lo studio della Scrittura, il suo culto, l’approccio con la modernità imponevano uno sviluppo, e a questa necessaria evoluzione spesso si opponevano personalità a tutti gli effetti “antimoderni”. Nonostante questi elementi di verità, l’interpretazione progressista del Concilio, per Wojtyla e per i suoi allievi, non riuscì a coglierne l’elemento cruciale. Qualsiasi interpretazione del Vaticano II che non vi veda, innanzitutto, una profonda esperienza spirituale, un “atto di fede” tra le miserie dell’epoca, un “arricchimento della fede” della Chiesa, affinché i cristiani possano vivere una “partecipazione sempre più piena alla verità divina” è semplicemente destinata a non cogliere ciò che è stato centrale nell’esperienza nel Concilio Vaticano Secondo stesso.

È risaputo, infatti, come Wojtyla non perdesse occasione per ribadire che il Vaticano II fosse pienamente comprensibile soltanto al di fuori dell’ermeneutica politica “destra-sinistra”, ossia di un confronto tra le principali forze politiche-ecclesiastiche all’epoca contrastanti, bensì invitava a comprendere quell’evento come un fatto religioso il cui principale protagonista fosse lo Spirito Santo.

Il Concilio, scrive Wojtyla, non ha voluto essere un Concilio dogmatico, in quanto non altera alcun contenuto della fede. Tuttavia, non lo si può neppure far retrocedere ad un Concilio minore, che si è occupato di qualche aspetto della disciplina ecclesiale. Esso appariva al compianto Pontefice – che partecipò ai lavori in qualità di amministratore capitolare dell’Arcidiocesi di Cracovia – come un Concilio eminentemente pastorale. Ciò significa che, piuttosto che tematizzare ciò in cui dobbiamo credere, è intervenuto direttamente sul modo in cui dobbiamo rendere testimonianza dei contenuti della fede. Per Wojtyla, la domanda che ci pone il Concilio è la seguente: “in che modo dobbiamo credere perché la fede diventi la forma della nostra vita?”. Il Concilio interroga i cristiani su come dare forma viva ai tradizionali contenuti di fede. Il problema, sostiene il filosofo Rocco Buttiglione in un rilevante saggio del 1991 è metodologico e soggettivo: “Metodologico: concerne il modo in cui la fede diventa vita. Soggettivo: concerne prima di tutto non il contenuto della fede ma il soggetto della fede”.

A distanza di anni dalla chiusura di un Concilio, la critica all’interpretazione della discontinuità del Concilio, osserva Weigel, non ha nulla a che vedere con la critica lefebvriana, quanto piuttosto con l’interpretazione che del Concilio davano alcuni gruppi intellettuali influenzati da un’ermeneutica dei fenomeni sociali di tipo marxista. Se consideriamo che il cuore dell’avvenimento conciliare sia stato il riconoscimento della libertà di coscienza come un diritto inalienabile della persona umana, si comprende l’abisso che separa l’interpretazione wojtyliana del Concilio rispetto al rifiuto dello stesso da parte dei lefevriani. Scrive Weigel: “Altri, fra cui un arcivescovo missionario francese senza peli sulla lingua, Marcel Lefebvre, erano convinti che qualunque avallo cattolico della libertà religiosa avrebbe significato la sottoscrizione della secolarizzazione cui la Rivoluzione francese aveva spalancato le porte”.

La critica di Lefebvre al Concilio si gioca tutta intorno al rifiuto del principio di libertà di coscienza, inteso come opposto al principio del diritto della verità. In breve, per Lefebvre, non la libertà, ma la verità rappresenterebbe il valore supremo e, di conseguenza, essa dovrebbe essere posta al centro della vita sociale di tutti i cittadini, i quali, nei limiti del possibile, dovrebbero essere costretti a riconoscerla e a sostenerla. Tuttavia, nell’interpretazione conciliare di Wojtyla, la cifra della libertà umana ci è data dalla capacità dell’uomo di trascendere i propri impulsi per scegliere il bene: il modello di tale prospettiva antropologica è evidentemente Gesù Cristo. Gesù userà la propria libertà in obbedienza al Padre fino all’estremo dono di Sé. Se la cifra della libertà, dunque, è il dono, ne consegue che non può esistere dono se non nella libertà, ed anche un’azione buona – rispetto al proprio contenuto – che sia avvenuta in assenza di libertà perderebbe il carattere propriamente umano, ovvero personalistico, ossia morale. In tal modo, il problema della libertà religiosa è iscritto nel contesto del personalismo cristiano, riletto da Wojtyla alla luce del metodo fenomenologico, ed è esposto come la manifestazione della trascendenza della persona umana verso Dio. Così, Wojtyla dimostrò che era possibile difendere energicamente la libertà religiosa senza “ridurre” la “libertà” ad una questione di indifferenza fra opinioni.

Ecco il testo finale della Dignitatis Humanae che ha i un certo senso contribuito a mutare la storia del XX secolo:

 “Questo Concilio Vaticano dichiara che la persona umana ha diritto alla libertà religiosa. Tale libertà significa che tutti gli uomini devono essere immuni dalla coercizione da parte sia dei singoli individui, sia di gruppi sociali e di qualsivoglia potestà umana, e in modo tale che, in materia religiosa, nessuno sia forzato ad agire contro la sua coscienza né sia impedito, entro debiti limiti , ad agire in conformità ad essa privatamente e pubblicamente , da solo o associato ad altri. Inoltre, dichiara che il diritto alla libertà religiosa si fonda realmente sulla stessa dignità della persona umana, quale si conosce sia per mezzo della parola di Dio rivelata che tramite la stessa ragione. Questo diritto della persona umana alla libertà religiosa dev’essere riconosciuto e sancito come diritto civile nell’ordinamento giuridico della società” (DH, n. 2).

La Dichiarazione conciliare fece propria un altra sfida di Wojtyla, offrendo alla libertà religiosa un fondamento nella Rivelazione di Dio, che è il fondamento della vita stessa della Chiesa:

“Uno dei punti principali della dottrina Cattolica, contenuto nella parola di Dio e costantemente predicato dai Padri, è che l’uomo è tenuto a rispondere volontariamente a Dio credendo; nessuno può quindi essere costretto ad abbracciare la fede contro la sua volontà. Infatti l’atto di fede è per sua stessa natura un atto volontario, giacché l’uomo redento da Cristo Salvatore e chiamato in Cristo Gesù ad essere figlio adottivo, non può aderire a Dio che si rivela, se il Padre non lo trae e se non presta a Dio un ossequio ragionevole e libero” (DH, nn. 10-11).

Negli anni immediatamente precedenti il Concilio, soprattutto presso i teologi che con le loro opere ne avevano preparato i lavori, era abbastanza diffusa la convinzione che la filosofia del futuro fosse una “filosofia dell’uomo” in grado di conciliare l’esistenzialismo ateo con quello religioso e, in virtù di tale conciliazione, il secondo avrebbe avuto la meglio sul primo. È opinione diffusa che, accanto a ragioni di ordine politico e sociale, motivi di carattere intellettuale furono alla base della crisi post-conciliare, ed in particolare, il cedimento dell’esistenzialismo religioso nei confronti di quello ateo e del confluire di quest’ultimo nel marxismo. In seguito a questa evoluzione irriflessa dell’esistenzialismo, i cosiddetti “progressisti”, affinché potessero dialogare con la modernità, si videro costretti a notevoli cedimenti nei confronti del marxismo, e chi reagirà ad una simile prospettiva lo farà il più delle volte per ragioni di pura “conservazione”, non accettando, in definitiva, l’impossibilità di un esito cristiano della crisi della modernità. Scrive acutamente Buttiglione: “In ogni caso l’accettazione della confluenza della filosofia dell’esistenza nel marxismo, la rinuncia a un suo possibile esito pascaliano, rende inintelligibile il clima spirituale nel quale il Concilio si svolge e chiude la strada verso quella direzione di sviluppo della filosofia cristiana che il Concilio doveva portare”.

Chi non muterà il proprio programma intellettuale sarà proprio Wojtyla, il quale, pur consapevole della crisi post-conciliare, intende intraprendere la strada del rinnovamento filosofico e dell’incontro della filosofia dell’essere con quella dell’esistenza, coniugando in modo del tutto originale, in un certo senso, San Tommaso e Pascal. Scrive Buttiglione: “Wojtyla, in un modo direi quasi simmetrico rispetto a Sartre, propone l’incontro tra la filosofia dell’esistenza e il tomismo, sulla base di una riforma del tomismo che lo renda capace di accogliere del ragioni della filosofia dell’esistenza, senza negare se stesso”.

Dunque Tornelli ha probabilmente ragione. Tuttavia, la prossima ripubblicazione ad opera della Fondazione Novae Terrae e dell’Editrice Rubbettino del libro di Wojtyla sul Concilio offrirà l’opportunità di riunire teologi pastorali e di altre branche teologiche, storici, filosofi sociali, economisti, costituzionalisti ed esperti delle varie scienze sociali per riprendere una riflessione avviata dal prof. Wojtyla nel 1971 ed inspiegabilmente tenuta per troppo tempo nel sottoscale del pensiero.