Il covo segreto

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Il covo segreto

03 Agosto 2011

Dovevo essere quanto più educato e convincente con la signora: vedova di cotanto marito era abituata a essere trattata coi guanti e io non avevo nemmeno l’autorità di forzarla a rispondere. Dovevo farmi rispondere per la mia bella faccia.

Composi il numero, che avevo rimediato dopo una sfilza di problemi che non sto nemmeno a dire, e attesi la risposta. Come immaginavo venne una straniera a rispondere all’apparecchio, sicuramente la cameriera.

«Pronto?».

«Buongiorno. È possibile parlare con la signora Calcagni?».

«La signora non può rispondere. Lascia messaggio?».

«Sì. Le dica che ha chiamato Laerte Sglen e le chieda se, anche verso le cinque, è disponibile a rilasciare una breve intervista alla Gazzetta».

«Va bene. Suo recapito?».

«Non si preoccupi, richiamerò io. Grazie».

Questa era fatta. Se avevo un po’ di fortuna la signora si sarebbe lasciata intervistare. Dalla mia amica Rosa, che lavorava in una boutique di via Sparano, avevo saputo che voleva entrare in politica al posto del marito. Mi aveva confidato che la signora Giuliana Calcagni e il marito erano separati in casa e mantenevano solo un’apparenza di famiglia per evitare tutti quegli spiacevoli episodi che possono verificarsi con la separazione, compresa l’emarginazione da certi ambienti decisamente utili. Lavoravano entrambi nella stessa fazione politica, lei andava in giro a fare la campagna elettorale, attaccava spillette e via cantando. La vedova inconsolabile non si sarebbe certo fatta sfuggire l’occasione della morte del marito e l’avrebbe usata come sponsor.

Rosa mi aveva anche detto che la Calcagni era una donna assetata di potere e avrebbe fatto qualunque cosa per arrivare dove voleva. Chissà dove voleva arrivare?

Raggelai: l’idea che crepare trasformi in un mezzo propagandistico mi sbalordiva.

Prima che arrivassero le cinque avevo intenzione di fare una piccola improvvisata a Rita, sperando che fosse in casa.

Avevo intenzione di chiederle alcune cose sui tabulati telefonici.

Bussai e fortunatamente c’era, era ancora in divisa:

«Che vuoi? Ti ho detto che ne parliamo stasera».

«Voglio che mi fai un piacere: cerca di ottenere i tabulati telefonici della signora Giuliana Calcagni».

«Ma tu sei sciroccato!».

«Probabile».

«Per avere certe informazioni ci vuole l’autorizzazione».

«Lo so».

«E ti pare poco?».

«È un’emergenza, no?».

«Non ti prometto nulla. Vedo un po’ cosa si può fare».

Tornai a casa, cercando di fare quanto meno rumore possibile per non disturbare lo Specializzando che dormiva in vista della guardia di quella notte, accesi il televisore al minimo volume.

Al telegiornale si parlava della morte di Gaetano Mendo il mafioso, del suicidio dell’assessore Calcagni e del fatto che una volta morti questi due personaggi – avversari, se pure in modo diverso, della teppa albanese – quest’ultima avrebbe avuto il sopravvento.

Era strano sentire accomunare un assessore buonista e influente a un mafioso pericoloso e potente in questa lotta al racket albanese. A lungo andare li avrebbero chiamati “patrioti”.

A sentire quella notizia, mi venne in mente che avrei potuto chiedere delle delucidazioni migliori ad una mia cara conoscenza: Riccardo.

Ovviamente questo nome non era il suo, ma io lo chiamavo così perché quello originale non lo riuscivo a pronunciare.

Era un ragazzo albanese ed era a capo di una gang. Il suo covo era in un palazzo diroccato vicino casa mia e ci eravamo conosciuti in circostanze piuttosto particolari che cementarono la nostra amicizia, ma che non posso raccontare per motivi di sicurezza.

Il suo covo ricordava un set cinematografico piuttosto scontato: una scelta assortita di locandine di film d’avventura di serie B, carabattole e cianfrusaglie tipiche della terra d’origine di Ricky, luci soffuse. Un posto che mi avrebbe fatto paura se non fosse stata l’ennesima volta che ci andavo e tutti quanti mi riconoscevano e salutavano.

Lui sedeva nella posizione del fior di loto su un cuscinone di pelle. Era un estimatore della cultura indiana e ne conosceva usi e costumi. Ciò che mi ero sempre chiesto era come avesse accumulato tutte le cose che sapeva: aveva una cultura che non ci sarebbe aspettati.

Ci salutammo. Parlava molto bene l’italiano e si divertiva a esprimersi quanto più compitamente possibile, era una specie di vezzo, una delle sue tante piccole vanità. Dopo qualche battuta ed esserci reciprocamente informati su come andassero le cose, gli domandai:

 «Hai sentito che Tano Mendo e l’assessore Calcagni sono morti? Al telegiornale hanno detto che per la mafia albanese sarebbe stato un terno al lotto».

«Ci sono due verità per ogni cosa creata. È vero che Tano Mendo era un nostro concorrente e che sotto l’aspetto economico è una manna, ma per tanti altri no: lui metteva a libro paga tutti quelli che arrivano qui clandestinamente, se morivano durante il viaggio era una perdita per lui, quindi voleva che arrivassero qui sani e salvi».

«Quindi li faceva arrivare e gli dava un lavoro, per così dire».

«Precisamente. E Calcagni con una mano ci combatteva, ma con l’altra arraffava una percentuale per tutti i clandestini che regolarizzava. Dalla paga di ognuno di loro veniva tolto un tot per pagare il caro assessore».

Senza voler fare dell’agiografia, credo che sia doveroso spiegare che Riccardo non amava la violenza e uccideva solo per ottime ragioni. Purtroppo era stato catapultato in quella dimensione malavitosa senza nemmeno volerlo, ma aveva degli obblighi. Provava repulsione per il suo “mestiere”, ma non ci poteva fare nulla. Riconosco che parlarne così attenua il ruolo tremendo che occupava, ma io lo conoscevo sotto questa dimensione e mi sarebbe impossibile descriverlo in altro modo.

«E come faceva? Mi va bene che potesse farlo con un paio di tanto in tanto, ma non a getto continuo».

«Aveva una rete di collaboratori all’ufficio Immigrazione e Naturalizzazione, ognuno dei quali intascava qualcosa».

«Quindi costituiva un giro di “riciclaggio” di clandestini».

«Proprio così. Penso che sua moglie continuerà, anche se non ne sono sicuro».

«E perché non ne sei sicuro?».

«Perché l’assessore lavorava in società con Tano Mendo. E ora che sono morti tutti e due, non ha senso continuare se non c’ nessuno che li sostituisce».

«In che rapporti erano Mendo e Calcagni?».

«Sembravano il gatto e la volpe. Ma negli ultimi tempi avevano iniziato a fare gli avidi. Tutti e due volevano di più, sempre di più».

Mugugnai qualcosa fra me e me, poi lo ringraziai e me ne andai.

(Fine capitolo 3)