Il Cremlino e le vie del soft power: il caso delle spie russe negli USA
02 Luglio 2010
Un caso si spionaggio sembra riportare la lancetta dei rapporti tra Usa e Russia indietro di una ventina d’anni. I presidenti delle due potenze, Barack Obama e Dmytri Medvedev non avevano ancora finito di scambiarsi complimenti e contatti di Twitter, che la polizia americana metteva le mani su una rete di 10 presunte spie, che operavano illegalmente a New York, Boston e Washington. Alcuni particolari degli arresti rivelano quanto poco sia cambiato dai tempi della Guerra Fredda fra Usa e Urss. La più affascinante fra le presunte spie, Anna Kushchenko in Chapman, vantava al marito, l’inglese Alex Chapman, di essere figlia di un ufficiale del Kgb, attualmente diplomatico in servizio nello Zimbabwe. Un’altra arrestata, Vicky Pelaez, è una giornalista, nota negli ambienti ispanici americani per essere un’apologeta di Fidel Castro. Secondo l’accusa, sarebbe stata impiegata dal Kgb come messaggera e porta-valori, per fare la spola fra la rete di spionaggio negli Usa e i “compagni” sudamericani.
Cuba, afrocomunismo, America Latina comunista… sembra di leggere una cronaca dei tempi di Brezhnev. Davvero nulla è cambiato?
Lo spionaggio scoperto potrebbe essere solo la punta di un iceberg. A dirlo è uno dei maggiori esperti russi in merito, l’ex colonnello del Kgb, Oleg Gordievskij, defezionista dal 1985 e storico del servizio segreto sovietico e poi russo. Gordievskij definisce questo episodio “piccola politica”, per nulla in grado di modificare la rotta delle relazioni fra Washington e Mosca. Ma non per questo lo sottovaluta: “Una stima conservativa parla di circa 400 spie che operano in territorio statunitense dalle sedi diplomatiche e da altre istituzioni governative russe”. Gordievskij stima che gli agenti “illegali” come quelli arrestati, siano almeno una sessantina.
I presunti agenti arrestati avevano il compito di farsi strada nell’alta società americana, non solo per carpire informazioni, ma anche per influenzarla ideologicamente dall’interno. Anche loro erano uno strumento di “soft power”, la capacità, non solo di dare l’esempio, ma di condizionare il comportamento delle nazioni senza ricorrere all’uso della forza o alla minaccia.
Sia Putin che Medvedev hanno dedicato sempre maggiori risorse al “soft power”. A rilevarlo è l’ultima edizione del Russian Analytical Digest, prodotto dalle università di Brema e Zurigo, uno dei migliori paper periodici di studio sulle tematiche dell’Est europeo.
Esattamente come ai tempi dell’Unione Sovietica, gli strumenti del condizionamento non sono solo quelli dello spionaggio e della disinformazione. C’è anche tanta, tantissima informazione pubblica. La comunicazione politica è soprattutto rivolta ai russi e russofoni all’estero e alle repubbliche ex sovietiche. Una campagna di informazione di successo (in Moldavia, per esempio, gli uomini politici più conosciuti e popolari sono Medvedev e Putin, non i leader locali) che sta creando un nuovo ambiente geopolitico: il “Mondo Russo”, come viene definito dai media vicini a Mosca. Il “Mondo Russo” non indica solo il popolo e la diaspora russi, ma la cultura, i valori e la missione nel mondo della Russia. Gli strumenti usati per diffondere il messaggio? I media in lingua russa, la Tv satellitare RT, che trasmette in 100 Paesi in inglese, spagnolo e arabo, supplementi a quotidiani occidentali (fra cui “Russia Now” allegato al Washington Post) finanziati dal quotidiano di Stato Rossiskaja Gazeta e sempre più centri studi, fra cui la fondazione pubblica “Russkij Mir” (“Mondo russo”, appunto), che a sua volta finanzia all’estero centri per la diffusione e l’insegnamento della cultura e della lingua russe.
La diaspora russa ne è conquistata. Se negli anni ’90 gli emigrati nei Paesi occidentali (e i russi rimasti tagliati fuori dai confini della madrepatria dopo la dissoluzione dell’Urss) erano generalmente visti come dei disperati in fuga o minoranze discriminate, oggi la percezione del russo all’estero è molto cambiata. Non solo è cambiato il suo status sociale (inquadrabile fra i nuovi ricchi), ma anche la sua caratteristica visione del mondo. Il russo medio all’estero è generalmente orgoglioso della sua madrepatria, esprime un esplicito senso di rivalsa sulle miserie del passato, è pronto a schierarsi con il suo presidente in caso di guerra. Il dissenso esiste, ma è sempre più raro: non capita quasi mai sentire frasi come “Putin ci sta portando alla rovina”, se non in ambienti ristretti e altamente politicizzati. La campagna di comunicazione per i russi, prima sotto Putin e adesso con Medvedev, ha dunque ottenuto quello che voleva: creare patriottismo in patria e all’estero.
L’opinione pubblica occidentale, al contrario, è ancora molto scettica nei confronti della Russia. Benché pochi, al di fuori della Polonia e delle Repubbliche Baltiche, percepiscano Mosca come una minaccia, della Russia si parla per quattro cose: i ricatti sull’esportazione del gas, la violazione dei diritti umani, l’invasione della Georgia e la corruzione dilagante. Per questo, per conquistare le élite occidentali alla loro causa, i vertici del Cremlino ricorrono ancora ai vecchi metodi tradizionali: allo spionaggio.