Il discorso del re dimostra che per fare un bel film basta una storia
30 Gennaio 2011
Trionferà ai prossimi Oscar “Il discorso del Re” di Tom Hooper? Lo dovrebbe fare, soprattutto per una ragione: dimostra che poi, in definitiva, per realizzare un grande film c’è bisogno di poco.
Una storia, innanzitutto. Ben scritta e ben strutturata. Una splendida leggerezza dei dialoghi. Bravissimi attori, non necessariamente divi del grande schermo. E poi intelligenza e umanità. Non c’è bisogno per raggiungere il cuore dello spettatore di puntare l’obiettivo della macchina da presa sull’abisso delle discariche del mondo, o nelle piaghe purulente che affliggono e mortificano l’umanità. Né c’è bisogno del ricorso agli effetti speciali, alle immagini uscite dal cappello magico del computer, alla musica stereofonica, agli occhialini per la visione tridimensionale. Il film, in definitiva, raggiunge l’arte quando riesce a trasformare, come avviene “Il discorso del Re”, la storia di un sovrano nella storia di un qualsiasi individuo affetto da paure, angosce, timori, preoccupazioni, debolezze.
Il londinese Ton Hooper, nato nel 1972, dopo uno splendido e cattivissimo film sul mondo del calcio (“Il maledetto United” del 2009), si misura con la grande Storia. Da un allenatore, distrutto dall’alcol e dall’insicurezza, si passa al Re dì Inghilterra, non meno angosciato. “Il discorso del Re” si apre proprio su un campo di calcio. Anzi, nel tempio dove ha rotolato (e ancora rotola, pur se in una veste nuovissima, che ha sostituito con materiali moderni le vecchie gradinate di legno): Wembley. Tipica giornata londinese. Livida e fredda. Cielo plumbeo. Lo speaker annuncia l’entrata del Duca di York, secondogenito di Giorgio V. Si trova lì per tenere un discorso. L’uomo si irrigidisce dinnanzi ad un vecchio microfono. Gigantesco, metallico e minaccioso. Lì deve fare entrare la voce. Tutti aspettano le sue parole. Ricchi e poveri. Uomini e donne. Vecchi e bambini. Una volta ai rappresentanti della Corona era sufficiente la presenza. Adesso, nell’era delle comunicazioni di massa, devono saper parlare. E il Duca di York non riesce a spiccicare una parola. Del discorso scritto non è in grado nemmeno di leggere due righe. Escono suoni disarticolati, gracchianti, stridenti. Il silenzio e la perplessità dell’uditorio sono pari al freddo sceso sullo stadio. Per il figlio del Re non c’è affetto, ma solo compassione.
Che razza di reale è uno che non riesce a parlare al popolo? Ma per il Duca di York l’imprevedibilità del destino ha riservato un ruolo imprevisto. È chiamato addirittura a reggere le redini del Regno (e dell’Impero) d’Inghilterra, in un momento drammatico della propria storia. Toccherà a lui il compito nel 1939 di pronunciare un discorso grave e determinante. La Germania ha invaso la Polonia e l’Inghilterra gli ha dichiarato guerra. Ora spetta al Re Giorgio VI comunicare ai sudditi cosa gli spetterà, e richiamarli ai sacrifici futuri, da condividere tutti insieme, nello spirito della fratellanza nazionale e nell’ideale della libertà. Il Duca impaurito con il quale si è aperto il film, adesso è Re. Suo padre è morto. Suo fratello Edoardo VIII inaspettatamente ha abdicato per sposare Wallis Simpson, un’americana di Baltimora divorziata. Ora il fratello strampalato della famiglia, debole e balbuziente, contro la propria volontà si trova alla guida del popolo britannico. Ancora una volta un microfono, una radio. Stavolta però il pubblico non è più quello dello stadio. La nazione intera sta aspettando le parole del Re.
Giorgio VI stavolta non è solo. Accanto a lui c’è un amico, il logopedista di origini australiane Lionel Logue, un eccentrico personaggio convinto che la balbuzie è il riflesso di un tormento dell’anima. Lionel in realtà voleva fare l’attore. Non c’è riuscito e si è improvvisato logopedista, sperimentando metodi non ortodossi rispetto alla medicina del tempo), sui reduci della Grande Guerra, impediti nella parola a causa di traumi subiti sul campo di battaglia. Lionel tratta il sovrano da pari a pari. Lo chiama Bertie, come si usa nella famiglia reale. Pretende che la cura avvenga nella sua modestissima abitazione. Con Bertie è chiaro: deve prima risolvere i problemi personali. Solo dopo avrebbe potuto ritrovare la parola.
Tra questi due discorsi, quello della caduta e quello della redenzione, c’è di mezzo un film splendido, tre eccellenti attori, Colin Firth (Giorgio VI), Goeffrey Rush (il logopedista) ed Helena Bonham Carter (la moglie del Re e madre dell’attuale sovrana Elisabetta II), tante risate frutto del miglior umorismo britannico e un insegnamento universale: per sovrani o semplici individui, la vita non è mai facile. Determinazione, umiltà e buona volontà aiutano non poco. E poi, non dimentichiamolo, nella vita c’è bisogno dell’amicizia. Perché dovrebbe sfuggire l’Oscar ad un film come questo?