Il fantasma di Khomeini agita Egitto e Arabia Saudita
01 Maggio 2009
Afghanistan
L’Afpak continua a occupare l’attenzione degli osservatori internazionali. L’acronimo fa di Afghanistan e Pakistan un’unica entità e indica la comune radice della crisi.
La prima notizia riguarda lo sforzo sempre più grande degli alleati anglosassoni nella guerra: in questo caso, è l’Australia a rispondere,vista anche la propria posizione geografica, agli appelli americani inviando ulteriori truppe, senza i limitanti caveat posti dai paesi europei, arrivando a 1.550 uomini circa.
Un’altra buona notizia. In tre province, saranno mandati qualcosa come 20.000 marines; inizia così la lotta contro il traffico di oppio, fonte di guadagno per i talebani e vari signori della guerra: si calcola che il commercio del papavero, che fa dell’Afghanistan il primo produttore mondiale con il 90%, ammonti a 300 milioni di dollari l’anno. Fino ad oggi questa fonte di illegalità è stato tollerata, come il male minore, dal governo afgano e dai suoi alleati occidentali, ma “tutto si tiene”: il problema è che se a questa azione di sradicamento non ne viene collegata un’altra per dare un lavoro e un reddito ai contadini, saranno state create truppe fresche per i talebani.
In grafico, il confronto della violenza in Afghanistan e Iraq; le previsioni future rispetto ai combattimenti non sono certo rosee, anche a detta dei comandanti americani.
Per chi volesse approfondire l’argomento, può leggere il report a cura dal Center for American Progress del 17 novembre 2008. “ Il Pakistan è situato nello snodo di una delle regioni più complicate dal punto di vista geopolitico del mondo – afflitta da povertà, proliferazione nucleare e terrorismo globale. Con una popolazione in crescita di più di 165 milioni di abitanti, il Pakistan è un link vitale tra il sud, l’Asia Centrale e il Medio Oriente. Le molteplici sfide interne si espandono al di là dei suoi confini e hanno un impatto di vasto raggio sulla stabilità regionale e globale. Come lo stato della situazione in Afghanistan, India, Iran e nei paesi dell’Asia Centrale ha influenza sul Pakistan, così gli eventi pakistani si trasferiscono sui suoi vicini”.
Pakistan
Il governo americano ha espresso apprezzamenti per la ripresa dell’iniziativa militare contro i talebani da parte di Islamabad. Le truppe pakistane hanno finalmente ingaggiato battaglia a non più di 150 chilometri dalla capitale, ma è presto per dire se questa operazione segna una svolta in quella che è stata finora la condotta del governo pakistano. Intanto, il governo americano ha aumentato i fondi per la lotta contro i talebani pakistani, ma il capo di stato maggiore americano, Michael Mullen, in visita proprio in Pakistan, si è detto estremamente preoccupato della situazione. Che Obama in questo caso non scherzi, lo dimostra anche la cifra richiesta al senato per finanziare la lotta al terrorismo: 83,4 miliardi di dollari! E questa è anche l’idea di Robert Kagan: “Il presidente Obama ha disarcionato l’ala sinistra dei democratici”. Ma non è detto che riesca a passare al vaglio degli eletti del suo stesso partito in Congresso, preoccupati dall’incremento dell’impegno in termini di uomini e soldi per il Pakistan, senza un ritorno visibile. Anche McCain si è fatto sentire con la proposta, del tutto condivisibile, di introdurre degli elementi di verifica dello straordinario sforzo USA.
Iran
Continua l’azione dei paesi arabi per arginare le ambizioni di conquista dell’egemonia regionale da parte iraniana. L’Egitto ha accusato esplicitamente Teheran di fomentare e pagare Hamas per mettere in crisi il governo Mubarak – è stata scoperta una cellula formata da 50 militanti nella capitale egiziana – che, in modo nemmeno tanto coperto, sta agendo in sintonia – leggi collaborazioni tra servizi segreti – sia con americani che con israeliani. Ma la notizia più notevole è che anche l’Arabia Saudita opera in questa direzione, intessendo rapporti con l’odiato nemico sionista, pur di bloccare l’avanzata di Teheran che, d’altro canto, non sta certo a guardare. Infatti, la cerchia dei suoi alleati si estende fino al Sudan e al Qatar, mentre sviluppa rapporti di amicizia con il Venezuela di Chavez. Ma l’Iran rimane una pedina necessaria nel Grande Gioco se le nazioni occidentali vogliono stabilizzare l’Iraq, il Pakistan e l’Afghanistan; una delegazione iraniana, guidata dal ministro degli esteri Manouchehr Mottaki, il 26 aprile si è incontrata a Kabul, con le sue controparti afghane per discutere di terrorismo e traffico di eroina che passa a fiumi attraverso il confine condiviso. Così, mentre l’Iran va verso il nucleare, nonostante le pressioni dell’inviato speciale della Casa Bianca, Dennis Ross, il regime sciita ha anche degli interessi in comune con gli Stati Uniti.
Iraq
La situazione in Iraq sta peggiorando a causa della ripresa di attentati e della scarsa volontà del governo Maliki di proseguire sulla strada delle riconciliazione nazionale che passa attraverso atti di buona volontà nei confronti dei sunniti e degli ex baathisti. Le difficoltà oggettive non sono lievi: da una parte, ci sono gli sciiti filo iraniani pronti ad accusarlo di arrendevolezza nei confronti degli ex nemici, dall’altra chi ha sconfitto Al Qaida, appoggiato dagli americani che per altro sostengono anche lo stesso primo ministro. Sullo stato del “movimento del risveglio sunnita” , il Los Angeles Times riporta storie significative di due personaggi, di cui uno ha intrapreso la carriera politica e sta cercando di entrare nel governo, mentre l’altro non ha deposto le armi e sta combattendo contro i partiti al potere.
Il New York Times presenta il punto di vista di un alto generale di Saddam, ora in Giordania, che si è rifiutato di collaborare con il governo iracheno a causa delle attuali posizioni di Maliki. Il primo ministro iracheno, da parte sua, ha accusato gli USA di aver violato gli accordi sulla sicurezza (SOFA) compiendo un raid, il 26 aprile, contro cellule sciite dove è rimasta uccisa una donna. Intanto, vi sono dichiarazioni, provenienti da ambienti del governo, sull’impossibilità per le truppe USA di rimanere nelle città come Mosul dopo la scadenza del 30 giugno, data che segna l’inizio della nuova fase: “Se avremo bisogno dei soldati – ecco il senso delle affermazioni – saremo noi a richiamarli”. Accanto a queste notizie preoccupanti, bisogna anche considerare quelle positive come la ricostruzione che sta avvenendo ad un buon ritmo: ad esempio, è stato riaperto l’acquedotto nella zona di Khandari.
Emirati Arabi
Gli Emirati Arabi (video divertente anche per il contrasto tra le armi, i veli e la presentatrice) spenderanno quest’anno in importazione di armi dagli USA la bella cifra di 7 miliardi di dollari, diventando il terzo paese importatore dalla super potenza.
Giordania
Intervista al ministro degli Esteri giordano, Nasser Judeh,sui rapporti con gli Stati Uniti, l’amministrazione Obama e il regno hascemita, uno dei pochi paesi arabi a intrattenere veri buoni rapporti con l’Occidente. “Il conflitto mediorientale, il conflitto arabo israeliano, al centro del quale vi è quello arabo palestinese, non può essere descritto come un conflitto locale o regionale; è un conflitto globale”. Riguardo ai passi che l’amministrazione Obama sta intraprendendo per aprire colloqui di pace, Nasser Judeh afferma: “Credo che sia molto importante in questa fase non porre pre-condizioni. Forse è saggio non fare nessuna dichiarazione preventiva su cosa succederà”. Inoltre, vale la pena di leggere anche l’intervista ad Assaf David, analista esperto di questioni mediorientali, sempre sul Middle East Progress.
Questione israelo-palestinese
Sembra che la nuova amministrazione Obama voglia intraprendere colloqui con Hamas, incluso nella lista dei gruppi terroristici. Infatti, il presidente americano vuole incontrare separatamente i protagonisti del conflitto per riuscire a sbloccare la situazione. Daniel Kurzer, ambasciatore in Israele con Bush e in Egitto sotto Clinton, sostiene che la situazione “sembra abbastanza triste… con una leadership palestinese divisa politicamente e geograficamente e con una assenza di qualsiasi movimento tra israeliani e palestinesi”. Ma tutta l’intervista, dai toni meno pessimistici della citazione, apparsa sul sito del Council for Foreign Relations, è estremamente interessante e quindi da leggere.
Segnaliamo poi la riapertura del dibattito sulle possibili soluzioni del conflitto. Qui la posizione del professor Efraim Inbar, che nel suo ultimo libro “La sicurezza nazionale di Israele. Problemi e sfide dalla guerra del Kippur”, sostiene, ma forse sarebbe meglio dire ‘constata’, l’impossibilità della soluzione “due popoli, due stati”. “La saggezza convenzionale suggerisce che la creazione di uno stato palestinese sia la tappa necessaria per la fine del conflitto… [Invece, vista la situazione, concludo che] un risultato pacifico in accordo con questo paradigma è lontano da emergere in un futuro prossimo: i due movimenti nazionali, quello palestinese e quello sionista, non sono vicini a siglare un compromesso storico e i palestinesi non sono capaci a costruire uno stato”.
USA
Continua il dibattito sui metodi d’interrogatorio usati dalla CIA. La decisione di Obama è nota a tutti, politicamente corretta ma senza individuare nessuna responsabilità: “La CIA ha sbagliato ma nessuno paga”. Posizione che ha dell’incredibile! Se sono stati commessi dei reati, si vada in fondo, altrimenti di che si parla? Ecco, a spiegare qualcosa, l’articolo di Porter Gross, direttore della CIA dal 2004 al 2006: “Una forma epidemica di amnesia sembra stia affliggendo i miei ex colleghi a Capitol Hill. Dopo l’11 settembre i membri del comitato parlamentare di valutazione dei servizi segreti non avevano nessuna altra priorità se non fermare Al Qaida. Nell’autunno del 2002, quand’ero capo della commissione servizi alla Camera, vi furono diverse riunioni e informazioni sul ‘Programma anti terroristi di serie A’ comprese le tecniche di interrogatorio utilizzate”. Quindi tutti sapevano… E che nessuno faccia adesso la mammoletta! C’è anche da aggiungere, come nota Stratfor, che “l’effetto finale dell’autorizzazione alla pubblicazione delle memorie è quella di aver creato un profondo stato di incertezza negli agenti che hanno impegnato la loro vita in prima fila nella lotta degli Stati Uniti contro il terrorismo e che adesso si domandano se ne sia valsa la pena…anche perché hanno agito in questo modo seguendo gli ordini della passata amministrazione”. In fondo la questione è abbastanza semplice. Con l’11 settembre è successo qualcosa di incredibile, a cui l’amministrazione Bush ha fatto fronte come ha potuto: al di là di tutto, come lo stesso Obama ha riconosciuto, adesso l’America ha voltato pagina, cioè è più sicura. L’unico vero errore è che forse ha chiesto troppo a se stessa: una nazione egemone non è un impero in senso classico e non ne ha neppure le risorse: non può ingaggiare da sola allo stesso tempo due guerre, reggere il confronto con il colosso cinese, reggere una crisi finanziaria mondiale e così via.
Per chi è interessato alle questioni di sicurezza, il Pentagono ha iniziato i lavori per l’elaborazione della Quadrennial Defense Review, il documento strategico che esce ogni 4 anni e sarà pronto nel 2010.
Sui giornali di tutto il mondo, numerosi articoli sui primi 100 giorni di Obama: qui il Washington Post.