Il fascismo antifascista. Perché non mi piace il 25 Aprile

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Il fascismo antifascista. Perché non mi piace il 25 Aprile

Il fascismo antifascista. Perché non mi piace il 25 Aprile

25 Aprile 2012

Dopo aver letto il suo articolo sull’’Unità’ del 20 Aprile scorso dal titolo ‘Il 25 aprile sia festa per tutti’, pensavo (lo ammetto, per mia ignoranza) che Oreste Pivetta (Milano, 1949) fosse un residuato bellico della lunga estate calda dell’ideologia italiana, un trinariciuto venuto dal passato, a riprova del fatto che da noi non si butta via niente e non ci sono capitoli di storia ormai chiusi per sempre. Andando per curiosità su ‘Internet’, ho visto, invece, che si tratta di un ‘intellettuale militate’ – laureato in architettura – con le ‘carte in regola’, collaboratore di note riviste e di case editrici prestigiose come Donzelli, Laterza e Feltrinelli, frequentatore dei ‘salotti buoni’ della sinistra italiana – Lucia Annunziata, Barbara Palombelli, Gad Lerner, Gianni Riotta. Nell’articolo, in cui mi sono imbattuto casualmente, Pivetta tesse l’elogio del suo sindaco, Giuliano Pisapia, per essersi recato a un deposito dell’Atm – un luogo simbolo perché fu uno dei capisaldi delle lotte operaie nel 1943 e poi nel 1944, contro i salari di fame e contro i fascisti e i nazisti, fino alla Liberazione – e avervi tenuto un’allocuzione memorabile in cui il portavoce di Nichi Vendola a Milano ha affermato che "ci sono feste che tutti hanno il diritto di celebrare e oltre a quelle religiose, ci sono quelle civili, tra cui il 25 Aprile e il Primo Maggio. Devono essere celebrate con la partecipazione ad eventi e manifestazioni e questo contrasta con l’apertura dei negozi".

Un tempo, commenta Pivetta, quelle parole "si sarebbero giudicate ovvie" ma poi sono arrivati i barbari, i sindaci Gabriele Albertini e Letizia Moratti, col proposito dichiarato di "minare il senso di quelle feste nazionali, di quel moto popolare". Albertini ebbe la spudoratezza di deporre un mazzo di fiori al campo 10 del Cimitero Monumentale dove sono sepolti i morti della Repubblica Sociale (cosa avrebbe mai scritto l’’Unità’ se avesse saputo che un leader socialista, allora capo del governo, una trentina di anni fa recò un omaggio floreale a Villa Belmonte di Mezzegra, luogo di una ‘esecuzione storica?) e la Moratti, si macchiò di una colpa ancora più imperdonabile: alla sua prima campagna elettorale, si concesse anche una rapida apparizione, insieme con il padre in carrozzella, il padre combattente partigiano nelle file dei liberali, al corteo del 25 Aprile. Ci riprovò, non gli fecero mancare fischi. Probabilmente Letizia aveva sentito dire da Pisapia, in un salotto dell’establishment milanese frequentato da entrambi, che "ci sono feste che tutti hanno il diritto di celebrare e oltre a quelle religiose, ci sono quelle civili" e aveva ritenuto di farvi partecipare il padre, combattente partigiano nelle file dei liberali.Una provocazione, evidentemente, per Oreste Pivetta, giustamente sanzionata dai fischi e dall’intimazione a togliere il disturbo. All’intellettuale militante non deve essere passato neppure lontanamente per la mente che impedire a qualcuno di intervenire a una festa nazionale, per definizione ‘di tutti’, è, sotto il profilo etico, espressione di barbarie e, sotto quello penale, un reato. Evidentemente porsi su questo piano, per lui, significa cincischiare con i formalismi liberali e perdere di vista la natura più profonda dell’agire collettivo: e cioè che il popolo, che sfilava per le vie della Milano liberata, era detentore di una ‘legittimità politica’ sostanziale che gli conferiva il potere (assoluto) di decidere chi dovesse far parte della sfilata e chi no. Sennonché a Pivetta, che non si limita a raccontare ma fa mostra di voler esaltare la prepotenza dei facinorosi, andrebbe forse ricordato che i fascisti, al tempo delle famigerate leggi razziali, non toglievano la camicia nera ai camerati ebrei che avevano preso parte alla guerra e alla marcia su Roma, mentre i suoi compagni (una minoranza nel Pd, voglio credere) hanno escluso dal corteo del 25 Aprile un agiato borghese anche se ha fatto la Resistenza (è vero, però, che l’ha fatta nelle file dei liberali e questo, per citare l’immortale Principe De Curtis, cambia le cose da così a così).Per l’articolista dell’Unità, l’apertura dei negozi sta tutta "nel segno della presunta modernizzazione, intesa ovviamente alla maniera del consumismo" e grazie al "presunto spirito di modernità e di innovazione" si vuole promuovere "l’indifferenza nei confronti della storia" e "l’insofferenza nei confronti di uno stato nato libero proprio il quel giorno, il 25 Aprile".

Per sua (ma non nostra) fortuna, però, il discorso dell’Atm ha segnato un’inversione di rotta. Giuliano Pisapia, che si definì sindaco di un’altra liberazione (dalla Moratti, da un ventennio di governo cittadino della destra), sta cercando di interrompere quell’intollerabile tentativo di negare certe basi della nostra vicenda nazionale e di un cultura universale del lavoro. Revisionisti, negazionisti, ideologi di una storia senza storia, banali economisti, (ovviamente ,come nella filosofia di Schelling, bersaglio dell’ironia hegeliana, siamo immersi in una notte in cui tutte le vacche sono nere e Renzo de Felice si confonde con Paul Rassinier!) hanno avuto la lezione che si meritavano: nel paese, c’è ancora chi si preoccupa del ‘degrado morale e culturale’ e vorrebbe tenere i negozi chiusi durante le festività civili e religiose.

In realtà, le parole del sindaco sono destinate a restare sul piano dell’esortazione, almeno finché rimarrà in vigore il decreto Monti sulle liberalizzazioni delle aperture degli esercizi commerciali e, pertanto, sorge il sospetto che, da buon politico all’italiana, Pisapia abbia concesso ai ‘suoi’ qualche gratificazione simbolica a costo zero – proprio come quelle che elargiva generosamente la Rsi con gli annunci di arditissime socializzazioni che servivano solo a non lasciare le carte in bianco (e grazie a Dio!).

Il problema, però, non è questo ma il virus totalitario radicato nei meandri della psiche di Pivetta e dei suoi cameragni, come la buonanima di Guglielmo Giannini chiamava le camicie nere diventate rosse. Il virus totalitario consiste nell’obbligo di rispettare simboli politici e santi in processione anche se in cuor proprio li si ritiene "dèi falsi e bugiardi". Il 25 Aprile non dice nulla al tuo cuore, non fa vibrare le corde della tua anima di cittadino onesto e responsabile? Peggio per te! Pensa quello che vuoi ma, davanti alle sacre insegne della Nazione o della Classe, devi toglierti il cappello come il Cav. Antonio Cocozza (Totò) fu costretto a fare dal sonoro ceffone mollatogli dalla camicia nera, Rag. Giuseppe D’Amore (Aldo Fabrizi), durante la sfilata ai Fori imperiali, nel film di Mario Mattoli, ‘Totò, Fabrizi e i giovani d’oggi’ (1960).

In un articolo pubblicato su queste colonne, il 6 Febbraio 2011, ‘Perché un liberale risorgimentale nutre perplessità sulla festa del 17 Marzo’, scrivevo che le ‘feste politiche’ vanno rigorosamente distinte da quelle civili, giacché mentre queste "rievocano la fondazione (il 4 Luglio negli Stati Uniti) o la rifondazione (il 14 Luglio in Francia) della “comunità politica”, stato nazionale o federale che sia" e, in quanto tali, non dividono gli animi ma ne enfatizzano la concordia, "la volontà di continuare a vivere insieme, non disgiunta dall’orgoglio dell’appartenenza e della differenza, e, quindi, benedicono l’esistente, le prime proclamano e manifestano, chiamano a raccolta i cittadini per un progetto collettivo: non rispecchiano sentimenti diffusi o credenze radicate negli animi ma vogliono ingenerare abiti di virtù, cittadini esemplari, nuovi modelli di umanità, rivelando, in questa ispirazione pedagogica, il loro coté giacobino e antidemocratico che nutre un vasto programma di riforma morale e intellettuale della nazione".

Aggiungo ora che tutte le ‘feste civili’ nacquero come ‘feste politiche’ – la presa della Bastiglia non unì tutti i francesi nella celebrazione dell’evento fatale – ma, col tempo, non vennero più vissute come rievocazione della vittoria di una parte del paese sull’altra ma come simbolo di unità nazionale e fonte di comune legittimo orgoglio. Alexis de Tocqueville apparteneva a una famiglia legittimista – il padre sfuggì per un soffio alla ghigliottina, la madre eseguiva al piano canzoni che ricordavano la prigionia della famiglia reale al Tempio, il fratello Edouard rimase fedele a Carlo X – ma nel discorso alla Camera del 27 gennaio 1848, scioglieva anche lui un inno all’89: La Francia per prima, in mezzo al fragore dei tuoni della sua prima rivoluzione, aveva gettato nel mondo dei principi che, in seguito, hanno dimostrato di essere principi rigeneratori per tutte le società moderne: questa fu la sua gloria, la parte più preziosa di se stessa. La Bastiglia aveva ricongiunto, almeno sul piano ideale, (quasi) tutti i francesi.

Da diversi anni, ormai, su ‘L’Occidentale’ e altre riviste,come ‘Foedus’ o ‘Quaderni di scienza politica’, sostengo la necessità di un’analisi non retorica del rapporto tra liberalismo e comunità politica (sempre specificando che la comunità politica può essere sia uno Stato nazionale che uno Stato federale, spesso indistinguibili per ‘tasso di patriottismo’), anche per gli stimoli intellettuali che mi ha dato la lettura di autori come il liberale Pierre Manent e il conservatore Roger Scruton (per limitarmi a questi). La mia tesi è che istituzioni e forme di governo (le ‘costituzioni’ in senso lato), per durare nel tempo, debbono affondare le loro radici su un terreno comunitario, fatto di ‘culture’, di ‘memorie’ e di ‘appartenenze’ distinte. Tale terreno è una costruzione lenta, complessa e faticosa della storia ma, una volta che si è sufficientemente consolidato, assume le sembianze di un fatto naturale, anch’esso, il va sans dire, destinato a rinnovarsi e ad essere travolto dal tempo come tutte le cose di questo mondo. Nella società contemporanea, a cementare le comunità, non sono più soltanto la lingua, la storia, le tradizioni, i costumi ma altresì le leggi che proteggono la libertà e i diritti dei cittadini e che finiscono per incorporare anch’esse l’identità etico-sociale degli individui – v. l’esempio classico delle ‘libertà inglesi’ che alimentano l’orgoglio della sudditanza a S. M. Britannica. E’ questa la ‘comunità liberale’: ci si riconosce compagni di avventura, imbarcati sulla stessa nave del destino, perché si parla lo stesso idioma ma soprattutto si ha fiducia in uno Stato (liberaldemocratico) che garantisce la legge e l’ordine ed è soggetto al controllo periodico del demos.

Alla ‘comunità liberale’ si contrappone quella totalitaria – fascista e comunista – in cui il consenso non è il prodotto naturale delle prestazioni concrete degli enti pubblici (amministrazione competente, giustizia imparziale, servizi sociali soddisfacenti, a partire dalla scuola e dagli ospedali), non si forma ‘dal basso’, spontaneamente e quasi inconsapevolmente, ma cala dall’alto, dall’obbligo di sottoporsi a un’iniezione di fiducia in una classe dirigente che distribuisce, senza il minimo sforzo, valori di carta e, in nome del ‘republicanism’, ne esige il rispetto incondizionato, anche se finto e forzato, da parte dei cittadini.

Nel nostro paese, abbiamo avuto una terribile e dolorosa guerra civile (tra fascisti e antifascisti) che è finita, simbolicamente, con la Liberazione del 25 Aprile e la proclamazione della Repubblica del 2 Giugno. Una parte degli italiani rimase fedele al regime, ingloriosamente crollato tra le bombe che distruggevano le nostre città, un’altra parte (per la verità molto esigua) imbracciò i fucili e raggiunse la Resistenza sulle montagne, un’"ampia zona grigia", per usare l’espressione di Renzo De Felice, rimase, scettica e tremebonda, a guardare alla finestra, aspettando la fine della tempesta. Al ritorno del sereno, la zona grigia – riserva elettorale della Dc e dei partiti moderati – si ritrovò in uno Stato non più monopolizzato da un solo partito ma preso in ostaggio dalla ‘partitocrazia’ ovvero da formazioni politiche che si autolegittimavano in virtù della Repubblica, della democrazia, dell’antifascismo. Valori rispettabili e irrinunciabili, certo, ma che, per essere fatti propri della maggioranza degli italiani, dovevano trovare un riscontro convincente nella quotidianità, in istituzioni che non discriminavano più nessun settore della popolazione – in base alle convinzioni politiche, alle militanze sindacali, alle credenze religiose, ai ruoli sociali – ma facevano sentire a tutti le ‘benedizioni della libertà’, anche a quanti, a destra e a sinistra, vagheggiavano forme di governo illiberali. Per varie ragioni, che sarebbe troppo complesso illustrare sia pure a volo d’uccello, fiducia e affetto per il nuovo ordine politico resistenziale non ci sono mai stati o ci sono stati solo in parte e in certi rari momenti storici. Non tutti gli italiani si dicevano "meglio Mussolini colla Petacci, che la Repubblica con ‘sti pagliacci" ma, in presenza di una vita civile dai profili pericolosamente mediterranei, il 25 Aprile o il 2 Giugno lasciavano freddi i cuori; e, persino, quanti votavano per i partiti antifascisti erano spesso infastiditi da retoriche repubblicane e da demonizzazioni del passato regime che non corrispondevano al loro vissuto reale. (Di qui, sia detto per inciso, il senso di liberazione, di aria rinfrescante, con cui venne accolta la storiografia revisionista: finalmente qualcuno, in area liberaldemocratica, raccontava com’erano effettivamente andate le cose, senza bisogno di ricorrere alla storiografia nostalgica e apologetica dei Giorgio Pisanò, dei Pino Rauti, dei Rutilio Sermonti).

La non corrispondenza tra i valori alti, dichiarati nelle Costituzioni e nei discorsi ufficiali delle autorità, e la prassi di tutti i giorni, in misura maggiore o minore, riguarda un po’ tutti gli Stati occidentali, anche se da noi il divario è molto più accentuato rispetto, ad esempio alla Francia o alla Germania. Sennonché, a caratterizzarci e a distinguerci dai nostri vicini, è il virus totalitario su accennato. Esso porta, tra l’altro, a privilegiare i simboli politici e a riguardare con indifferenza i simboli civili. I primi sono politici, nel senso forte, schmittiano, del termine: vengono elaborati concettualmente e vissuti esistenzialmente come strumenti di guerra, fattori conflittuali, divisioni di campo tra amici e dei nemici – dove agli uni è riservato l’idillio comunitario e ai secondi l’ostentazione dei muscoli e la minaccia (no pasaran). Per le vittime della droga totalitaria, come Oreste Pivetta, non c’è gusto se non c’è violenza (almeno simbolica): si raggiunge l’acme dell’erotismo ideologico se si sfila cantando l’inno di Felice Cascione (1943) – "Fischia il vento e infuria la bufera/scarpe rotte e pur bisogna andar/ a conquistare la rossa primavera/dove sorge il sol dell’avvenire" sotto le finestre dell’agrario che, ai suoi bei tempi, indossò la camicia nera ma si possono ottenere soddisfazioni minori ma sempre intense, modello demi-vierge, costringendo a ossequi formali quanti si sa benissimo che hanno opinioni ‘qualunquistiche’ in fatto di bandiere e di altri pennacchi. Per i pivettiani, i simboli civili, che, come quelli di certe feste religiose o ecologiche – il Natale, la festa degli alberi – portano tutti ad abbracciarsi sulle strade e sulle piazze, a cantare insieme, a intrecciare girotondi attorno ai luoghi della memoria, senza neppure conoscersi, sono, nel migliore dei casi, acqua fresca ma di solito risultano espedienti ingannevoli escogitati dal ‘sistema’ per spegnere l’aggressività e la giusta rabbia delle vittime del potere culturale (le chiese), sociale, economico (o dei complotti orditi da razze nefaste), e, in quanto tali, rappresentano il ‘disarmo degli spiriti’: il film ‘La vita è meravigliosa’ di Frank Capra (1946) contrapposto a ‘Que Viva Mexico!’ di Sergej Mikhajlovic Ejzenstejn (1932).

Forse non c’è bisogno di spiegare perché, in un’ottica occidentale, la comunità democratica dei cittadini dovrebbe promuovere i ‘simboli civili’ (come potrebbe essere il 2 Giugno) ma disinnescare quelli politici o, comunque, confinarli in uno spazio, in cui non possano che limitare i loro effetti spiacevoli.

Se dipendesse da me, abolirei la festività del 25 Aprile – non per quello che rappresenta ma per quello che è diventata de facto: uno sfogo di rabbia e di bile concesso a militanti ai quali è stato promesso il sole dell’avvenire e che si ritrovano, non per colpa loro, con le toppe nel sedere, un lavoro precario e un affitto troppo alto da pagare – ma se prudenza e opportunità consigliano di conservarla, nulla quaestio: rimangano pure chiusi gli uffici pubblici e si riducano pure i servizi di trasporto urbani ed extra-urbani, per consentire a operai, impiegati e funzionari di partecipare alle sfilate rievocanti il ‘bellum civile’.

Quello che mi sembra tremendamente illiberale, invece, è costringere o consigliare a sospendere le loro attività anche i privati: anche il tabaccaio, il barista, il benzinaio, l’edicolante che, specie di questi tempi, non vogliono sprecare una giornata di lavoro per sentirsi ripetere che la Resistenza ci ha rimesso all’onor del mondo e che va venerata come il nostro Secondo Risorgimento. Non è questione di economia, di consumismo, ma di libertà di coscienza, di disaccordo profondo espresso da quanti non si riconoscono nella versione ufficiale, che le alte cariche dello Stato e i partiti nati dai lombi del Cln danno della vicenda italiana, né in "quelle virtù e quei diritti" che ne derivano. Forse gli ‘indifferenti’ sbagliano, forse non si rendono conto che i miti hanno valore non per la verità che contengono bensì per le funzioni sociali che svolgono ma che dobbiamo fare? Dobbiamo costringerli ad abbassare le saracinesche e, semmai, a esporre, nei balconi delle loro case, bandiere rosse e tricolori con gli stemmi delle formazioni partigiane? E’ l’ideale di Oreste Pivetta e di quanti continuano, imperterriti, a tenere in vita il fascismo sotto mentite spoglie antifasciste: non può essere l’ideale degli autentici liberali che, con Cavour, D’Azeglio, Minghetti, centocinquant’ anni fa volevano ricongiungere l’Italia all’"Europa vivente".