Il fisco è al massimo un danno necessario  non un valore sacro

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Il fisco è al massimo un danno necessario non un valore sacro

23 Agosto 2007

La contingente e vivacemente estiva discussione pubblica sulla moralità del contribuente italiano, la legittimità della tassazione e il ruolo pedagogico se non suasorio della Chiesa invocato (sempre in Italia) dal premier contro gli evasori, ha dato occasione a sottili commenti. Tra i laici (credenti) Vittorio Messori ha ricordato che vi è nella tradizione cattolica una secolare dottrina della “legittima difesa” dei soggetti di fronte alle pretese di Cesare. Alcune voci ecclesiastiche hanno modulato, non senza rispettosa ironia nei confronti del capo del governo, risposte di accento diverso. Così mi è tornata alla mente la modernità di un classico della dottrina sociale e politica cattolica, e delle dottrine politiche tout court, il p. Luigi Taparelli D’Azeglio d.c.d.g (l’acronimo ottocentesco, in Italia, per i membri della Compagnia di Gesù).

Nel grande Saggio teoretico di dritto naturale appoggiato sul fatto, apparso in prima edizione negli anni Quaranta dell’Ottocento, il padre Taparelli si era occupato delle “gravezze” (capoversi 1175-1185, dedicati a Produzione e consumo pubblico; uso l’edizione napoletana del 1844). Assumeva che “il potere esecutivo è per se stesso industria, ma non ha per sé capitali, non altro essendo per sé, se non la autorità sociale considerata in quanto eseguisce: deve dunque trovar capitali se vuol produrre (…). E questo che la natura produce in fatto [la necessità per l’esecutivo di reperire i mezzi della propria esecutività] è parimente un dritto: giacché chi ha un dovere, ha dritto ai mezzi necessari (par. 1176)”.

Ma, proseguiva (par. 1178): “quali sono i limiti di tal dritto e dovere? (…). Il dritto del superiore [il reggitore, il titolare di potestà d’imperio] merita di essere ponderato attentamente, essendo dei più intricati nella esecuzione”. Infatti “è evidente non potersi imporre gravezze se non pel bene della società, e per conseguenza proporzionate a questo bene. Una gravezza che rechi maggior danno che utile è contraria alla giustizia e alla prudenza”. Nella nota Taparelli rinviava, e non per la prima volta, al Trattato di economia politica di Jean-Baptiste Say, ed. 1828, un classico “liberale”.

Inoltre il “dritto di gravezza” si fonda sulla obbligazione che i cittadini (i sudditi) hanno di concorrere al bene comune; ma “essi non hanno l’obbligazione se non a quello che è necessario”. Così quando il sovrano spende per “la pura forbitezza”, ovvero per cose non necessarie (pur ammettendo, osserva Taparelli,  che il “necessario” per l’uomo va oltre la semplice sussistenza) o non vantaggiose a tutti, “dovrà tassare soltanto coloro (individui o corpi) che, bramando ottener quei vantaggi, volontariamente consentono [ad essere tassati]”.

Se, poi, l’imposizione è “un valore tolto ai privati per impiegarlo a ben publico”, essa rappresenta un danno che viene compensato con la parte di bene pubblico che i soggetti tassati ottengono in cambio; “ma se questo ben pubblico potesse ottenersi senza quel danno, egli è chiaro che il danno non sarebbe compensato”.  Da ciò la opportunità che le gravezze siano assegnate “proporzionando non solo il peso alle forze, ma anche il danno al compenso”. 

Questa penetrante formulazione fa ancora parte, se non della prassi costante, dei criteri di saggezza che presiedono alle politiche fiscali in regimi non populistici? Certo nulla vi è di univoco. Cos’è bene pubblico? Qual è il limite oltre cui si ha la “pura forbitezza”, cioè quel genere di beni pubblici di pregio, quel livello di rifinitezza dei risultati, che si possono ritenere obiettivi secondari nella  strategia impositiva – perché essendo a vantaggio di pochi l’onere per ottenerli non deve gravare su tutti? 

L’idea che la tassazione, nell’accezione ampia (dovremmo distinguere a rigore tra tassa e imposta), sia comunque un danno inferto al privato che esige compensazione proporzionata, e che l’obbligazione politica tolleri questo danno solo se il sovrano, il superiore diceva Taparelli, pratica effettivamente la sussidiarietà, dà alla teoria taparelliana della obbligazione tributaria una vis felicemente inquietante, molto tardonovecentesca, critica verso la concezione dello stato come comunità morale-sociale (più che corpo politico) cui anche la cultura cattolica diffusa è debitrice, forse un poco succube. 

In effetti la dottrina sociale (e politica) italiana e cattolica cresciuta sotto la sfida e la suggestione del Socialismo, sembra senza difese critiche di fronte ad un ideale di società e  di politica sociale in cui la ricchezza sia riallocata “togliendo ai ricchi” e l’esecutivo incarni istanze redistributive. L’antropologia cristiana classica non ammette invece, fatto salvo un autentico stato di necessità, il danno inferto oltre misura alla libertà economica dell’individuo e dei corpi sociali “naturali”. Questa libertà è, per gli individui e i corpi sociali, una delle condizioni del compimento del fine proprio, della propria “perfezione”. E rappresenta un preciso vincolo all’azione del sovrano, antico o moderno, personale o rappresentativo.  Tra gli incantesimi che la Modernità secolare, come conclamato valore in sé, esercita sulle culture cristiane vi è, invece, anche quello che scaturisce dallo Stato Provvidenza.

Se etica e politica aristotelica guidavano s. Tommaso ad affermare che l’uomo è ordinato alla communitas come al proprio fine (di animal politicum),  egli sapeva che l’uomo non è ordinato alla polis così totalmente che i suoi atti debbano essere valutati in quanto meritori o non meritori per la communitas politica. L’uomo è in ultimo ordinato a Dio. Il Novecento ha molto discusso  sulla armonizzazione tra queste polarità. È risultata in genere chiara alla dottrina e alla politica cattolica la falsificazione della comunità politica operata, quasi perverso ordo amoris, dagli stati totalitari. Ma ieri come oggi non è altrettanto chiara, se non al Magistero e a minoranze, l’alienazione dell’animal politicum nelle metamorfosi dello “stato sociale” specialmente postmoderno, tutore ma infine elargitore  di diritti sociali di ultima generazione: libertà e dignità personali, integrità psichiche e “biologiche”, la cui definizione e realizzazione mai l’antropologia né la teologia politica cristiana avrebbero assegnato al sovrano.

Torniamo, allora, alle schermaglie tutte nostre, cattoliche e laiche, in corso di fronte ad un coro politico diviso e talora malevolo in merito ad enti ecclesiastici e  esenzioni. Non andrebbe mai dimenticato, a proposito di malevolenze, che la norma concordataria  del 1929 e i suoi corollari attuativi intesero anche, con la lungimiranza di una vera scienza politica, rimarginare la ferita delle leggi eversive con le quali lo stato unitario aveva depredato i beni della Chiesa, legittimamente posseduti. Rispetto allo stato laico la Chiesa resta, a maggior ragione in Italia, un contribuente sui generis.

Alcune reazioni ecclesiali alle osservazioni di Romano Prodi su una carente azione dei parroci nel prevenire o sanzionare l’evasione fiscale, si sono comunque schierate col premier, salvo garantirgli che la sollecitudine pastorale per la  retta coscienza civica esiste; ci mancherebbe altro! Altre hanno ritorto contro il premier, più o meno sommessamente, argomenti offerti dall’attualità, anzitutto quello della poca autorità di un ceto politico senza credibilità morale (almeno per il cittadino comune).

Ma non ha  avuto spazio (se non su l’Occidentale con Mingardi, Felice, Cofrancesco e altri) un capitolo della discussione internazionale sulla fiscalità, che anche la cultura politica (e economica e filosofica) italiana conosce. Ed è una conoscenza bipartisan.
Altrove qualche teorico ha la lucidità di chiedersi: la tassazione è realmente un bene? Il relativo diritto dello stato ad “imporre gravezze” è fondato? E, anche posto che sia impossibile rinunciare alla macchina del prelievo, vitale per flusso di allocazioni dello stato di welfare o  post-welfare, se il fisco corrisponde ad una mera, opprimente, necessità si può, si deve, trascriverlo in termini di valore?

Aggiungo: ed è lecito concepire, nella predicazione cristiana, la retta condotta del contribuente come risposta ad un valore? È forse valore in sé perché imposto dalla legge?  Potrà l’onesto contribuente leggersi almeno il padre Taparelli?

Edward Feser, professore alla Loyola Marymount University di Los Angeles, economista e filosofo sensibile alla questione dei fondamenti, ci ha ricordato (sulla Independent Review di qualche anno fa) come la vigorosa cultura libertarian, cui non è estraneo il pensiero cristiano americano,  sostenga la chiara illegittimità dell’istituto della taxation che tiene in piedi il Leviatano, lo stato moderno. Essa è giudicata illegittima per ragioni “evidenti”; per intenderci, com’è illegittima l’istituzione della schiavitù. Feser menziona due teorici diversamente radicali in proposito, Robert Nozick (noto e tradotto in Italia) e Murray Rothbard, autore di vasti trattati e caro anche alle culture libertarie italiane. Per Nozick in particolare l’imposizione costringe il singolo ad un più di lavoro forzato, al fine di sostenere un prelievo dal proprio reddito che altri userà per finalità sue proprie. La tassazione è una figura di coazione, dunque, affine a quella storica della schiavitù.

Conosciamo i controargomenti. Tra i teorici democratici prevale quello della partecipazione del cittadino stesso alla decisione pubblica relativa all’uso delle risorse derivate dal tributo versato.  Ma l’obiezione non toglie spessore alla problematicità filosofica e politica della tassazione moderna, specialmente se praticata in simbiosi con lo stato sociale. E questa problematicità investe, ovviamente, anche l’ideologia di un rapporto giuridico d’imposta  come orizzonte di valori civili.