Il fuoco sotto la cenere

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Il fuoco sotto la cenere

14 Marzo 2021

Se stiamo alle policies non è cambiato granché. Pasqua è come Natale. Anziché un dpcm habemus un decreto, d’accordo. Può far piacere a legulei come il sottoscritto ma, onestamente, non ne abbiamo guadagnato in chiarezza. Quel che più conta, la filosofia della lotta al covid è restata immutata: in presenza di una indiscutibile ripresa del virus in tutte le sue varianti, si tende a uniformare le misure piuttosto che operare distinzioni per provare a intervenire con più efficacia sul contenimento dei focolai senza farla pagare a interi territori che presentano situazioni assai differenziate.

Quel che certamente è cambiato è lo stile. La comunicazione è divenuta più sobria, minimale. I toni più consapevoli. Le divagazioni più contenute. Senza alimentare polemiche, si comunica al Paese che il centro del problema (e, si spera, la chiave della sua soluzione) è la campagna vaccinale. Si cerca, per il possibile, di mettere ordine evitando sperequazioni e fughe in avanti. E si punta ad accelerare. Affinché quel che stiamo vivendo, così simile a ciò che abbiamo già vissuto, possa essere considerato da ognuno e da tutti come l’ultimo miglio: l’ultimo sforzo prima della ripartenza.

Lo stile non è tutto. Non è il passaggio dalla notte al giorno. Questo mutamento, però, è stato sufficiente a stabilire un nuovo clima politico. D’altro canto, per litigare bisogna essere in due. E se il capo del governo assorbe i colpi anziché aizzare la polemica, anche per chi volesse differenziarsi il lavoro si fa più complesso.

Possiamo per questo affermare, utilizzando una vecchia metafora che fu di Italo Calvino, che una grande bonaccia è calata sulla politica italiana? Al di là dell’apparenza, la risposta è no (o quasi). Innanzi tutto perché la politica non si riduce agli scontri tra i partiti e la situazione di difficoltà che stiamo vivendo – una delle più dure della nostra storia unitaria – alimenta quotidianamente una crisi antropologica, sociale, economica la cui valenza, in ultima analisi, è tutta politica. E poi perché la sensazione è che, anche nella dimensione ideale e passionale, il fuoco stia comunque covando sotto la cenere.

Sembra che i principali attori politici – con una notevole eccezione della quale parleremo alla fine -, anche a prescindere da una loro piena consapevolezza, si stiano preparando ad affrontare un tempo della politica che non sarà più come quello di prima.

La circostanza è più evidente dalle parti della coalizione che sosteneva l’esecutivo di Giuseppe Conte. I 5 Stelle stanno puntando sull’innesto dell’ex premier per provare a cambiare pelle e da movimento di protesta permanente trasformarsi in partito con cultura di governo. Fin qui i titoli di testa. Come si svolgerà il film, invece, è tutto da scoprire: dove si collocherà il nuovo soggetto lungo l’asse destra/sinistra? La vocazione moderata e rassicurante propria del vecchio premier potrà convivere con l’anima giustizialista del movimento, che non sembra fin qui esser stata rivisitata? E cosa resterà dell’originaria pulsione populista? Il “residuo” sarà sufficiente a non lasciare spazio all’esplosione di un nuovo fenomeno che si richiami alla versione originale?

I dubbi e le perplessità sono ancora maggiori se si passa ad analizzare la situazione dell’altro socio della coalizione giallo-rossa: quel Pd, parente alla lontana del vecchio e glorioso Partito Comunista, che per una sorta di nemesi storica affronta la sua crisi più grave in concomitanza con il centenario del suo ingombrante antenato. Quel che ad oggi sappiamo è che la composizione tra correnti e potentati che rischiavano d’inscenare una guerra civile interna si è resa possibile sul nome di Enrico Letta: gentiluomo dal sapore antico, con un’idea romantica dell’impegno politico, che al tempo dell’avvento di Matteo Renzi aveva pronunziato il suo “gran rifiuto” concedendosi una stagione di studi. Questo precedente, però, non è sufficiente per immunizzarlo dalla “sindrome di Celestino V”: esser considerato come un espediente provvisorio in attesa che i potenti regolino le loro lotte intestine. Soprattutto, anche se Enrico riuscirà a evitare questa deriva – come sinceramente gli auguriamo -, non è ad oggi chiaro cosa il suo Pd potrà essere: un soggetto che tende a riconquistare il centro dello spazio politico, magari provando a stabilire un rapporto privilegiato con i moderati dell’altra sponda? O la sublimazione del partito radicale di massa che, all’ombra del politicamente corretto, provi a riportare in questo recinto anche un’area cattolica ridotta, oltre i dogmi e persino oltre la fede, a una mera sensibilità buonista?

Se gli squilli di tromba a sinistra s’odono più forti, a destra non mancano certo suoni e rumori. Li si colgono in particolare nel rapporto con l’Europa, dato che una posizione nella quale il sovranismo era interpretato come declinazione dell’anti-europeismo è stata spianata dalla storia di quest’ultimo anno. Per il post-pandemia nessuna persona cognitivamente attiva può credere che uno stato nazionale del Vecchio Continente possa vedersela da solo: se lo hanno capito quegli europei “rigoristi” che alla fine si sono detti disposti a pagare più tasse per cittadini di altre nazioni, a maggior ragione dovrebbero averlo compreso quegli altri europei che approfitteranno di questa situazione inedita.

Il tentativo degli ex-sovranisti italiani, perciò, è quello di provare a legittimarsi come forze conservatrici, euro-critiche ma non anti-europee, senza scivolare in derive estremiste e anti-sistema. E questo problema di ricollocazione riguarda sia Fratelli d’Italia che la Lega, in antagonismo tra loro. La competizione, a quanto pare, riguarda sia la posizione assunta nello scenario politico nazionale sia la collocazione europea, con Matteo Salvini che rigetta l’approdo nel Ppe per provare a costruire un nuovo gruppo in aperta concorrenza con quello che Giorgia Meloni già capeggia.

In tutto questo trambusto, quel che resta apparentemente immobile è proprio l’area moderata, liberale e cristiana: quella che per prima e con più convinzione ha sponsorizzato la nascita del nuovo governo. E che, per sensibilità e cultura, dovrebbe naturalmente considerarsi più vicina al nuovo premier.

In questi paraggi riflessioni e cambiamenti sembrano francamente insufficienti: sia che li si rapporti alle esigenze storiche del momento, sia che li si compari con quanto sta accadendo altrove. Forza Italia è come mummificata e la sua esistenza in vita è notificata soprattutto da dissidi che a scadenze regolari rompono gli argini interni e invadono la scena politica principale: è accaduto, da ultimo, in occasione dell’elezione del vicepresidente della Camera che avrebbe dovuto succedere a Mara Carfagna. Quanto agli altri pezzetti “centristi” – di destra, di sinistra e di centro -, al momento non hanno ancora superato il limite dell’operazione di palazzo, in grado di creare un raggruppamento parlamentare fragile e traballante, non ancora di dar vita a una proposta politica e a una casa comune.

Proprio questa è però la sfida e va affrontata con un confronto a “tutto tondo” alla luce del mondo che verrà e di come a quel mondo si stanno rapportando “gli altri”. Vasto programma, non c’è dubbio, ma l’unico possibile: rispetto ad esso non esistono scorciatoie.