Il futuro di Assad è ancora in bilico
13 Ottobre 2011
di Nino Orto
Se nelle ultime settimane la questione siriana sembra essere scomparsa dalle agende dei grandi media internazionali, la situazione all’interno del paese arabo è tutt’altro che pacificata e, mentre i giochi di potere internazionali che si scontrano in Siria sembrano tutti a favore dell’attuale presidente siriano Bashar al-Assad, il futuro della nazione è ancora in bilico. Turchia, Iran, Russia, Libano, Arabia Saudita, Ue, Usa: sono tanti e forse troppi gli attori all’interno della partita giocata da Bashar al-Assad per poter rimanere al potere e continuare a esercitare il ruolo di ago della bilancia nel sistema regionale di pesi e contrappesi all’interno dell’area mediorientale. Strategicamente infatti, la Siria è un paese importantissimo per gli equilibri geopolitici della regione: situata tra Turchia, Libano, Iraq, Israele e Giordania, la Siria è la “forza terza” che contribuisce in maniera fondamentale ad una maggiore o minore stabilità dell’area e, dalla sua disgregazione o coesione politica, dipendono le sorti del Vicino Oriente.
L’inverno nella repubblica araba di Siria è arrivato senza nessun particolare cambiamento rispetto alle stagioni precedenti e per la popolazione siriana sembra proprio che nessuna primavera araba illuminerà i sogni di libertà di un paese plasmato dagli eventi internazionali da più di quarant’anni. Infatti, nell’ultimo trentennio, ma in special modo dopo l’11 Settembre 2001, il consolidarsi della ferrea alleanza con l’Iran e gli Hezbollah libanesi nonché l’instaurazione di una sorta di tutorato da parte della Russia, hanno permesso alla Siria di resistere alle pressioni internazionali da parte degli Usa e dell’Europa che, timorosi di un’ ulteriore destabilizzazione dell’Iraq e del Libano da parte di Damasco o tramite il Partito di Dio libanese, hanno chiuso un occhio verso le pericolose alleanze tessute da Assad con grandi potenze mondiali “non allineate” e soprattutto, sono andate con i piedi di piombo riguardo l’atteggiamento da adottare nei confronti delle recenti rivolte (e della conseguente repressione) avvenute in Siria.
A mettere un’ ipoteca alla sicurezza della nazione da parte di ingerenze esterne, e da sanzioni internazionali efficaci, ha sicuramente contribuito in maniera fondamentale la presenza di una base navale russa nel nord del paese, a Tartus, unico luogo del Mediterraneo in cui stazionano in maniera fissa navi da guerra della flotta di Mosca. Infatti, se dal 1991 in poi la Russia ha riformato più volte la propria forza marittima e la posizione delle proprie basi militari sulla scena internazionale, questa base è rimasta per Mosca un punto fermo all’interno del Mediterraneo sottolineando la sua importanza strategica e il valore ad essa attribuito. Ad aggiungere un altro tassello alla protezione internazionale di Bashar al-Assad è stato il recente avvio dei lavori per la costruzione di una base navale iraniana a Latakia, di fronte le coste cipriote, che ospiterà navi da guerra, sommergibili e batterie lanciamissili antinave e antiaeree nonché un migliaio di pasdaran iraniani che, uniti alle diverse centinaia di milioni di dollari l’anno in finanziamenti aiutano non poco la misera economia siriana nei confronti delle sanzioni economiche americane ed europee.
Tuttavia, alla luce delle evoluzioni politiche degli ultimi mesi, questi assets strategici potrebbero non bastare più per la famiglia degli Assad. Infatti, nonostante i vantaggi strategici, lo scenario non è così semplice come potrebbe sembrare poiché la presenza di tali infrastrutture militari all’interno del paese complica ulteriormente la situazione interna ed internazionale, elevando la crisi siriana a terreno di scontro tra grandi potenze mondiali e portando in via teorica la contrapposizione manifestanti-regime ad una più ampia negoziazione geopolitica nella regione.
Esistono infatti due ulteriori fattori interni da analizzare: la questione palestinese e la divisione settaria. Tali declinazioni sociali ingarbugliano ulteriormente la situazione generale del paese e le alleanze politiche. Dal punto di vista religioso l’attuale establishment siriano è composto per la maggior parte da personaggi cresciuti all’interno della comunità alawita, mentre la maggioranza della popolazione siriana è composta da appartenenti alla fede sunnita. Tale impostazione di potere è stata mantenuta, e continua ad esistere tuttora, non suscitando particolari forme di protesta all’interno della popolazione, almeno fino a prima della rivolta. Anche se la Siria è una repubblica almeno formalmente laica, dopo le violenze degli ultimi mesi tale contrapposizione settaria potrebbe incidere in maniera preponderante sul futuro della rivolta e sulle possibili violenze che potrebbero portare a forti sconvolgimenti negli equilibri di potere all’interno della nazione.
Ci sono poi i palestinesi, altro punto caldo della crisi in corso. Essi, in quanto i profughi della nakba (palestinesi fuggiti dopo il 1948 dalla Palestina storica e rifugiati nelle varie nazioni arabe), sono personaggi senza cittadinanza e senza diritti politici all’interno della struttura istituzionale siriana. Potrebbero essere semplicemente lasciati liberi di andare verso Israele. Sono loro un’altra arma indiretta del regime da poter utilizzare come ritorsione contro il paese di David in caso di un eventuale attacco militare contro Damasco. Ne è un esempio l’assalto, durante le prime fasi della rivolta, alle recinzioni di confine sulle alture del Golan occupate da Israele dopo la guerra dei Sei giorni, ed utilizzate strumentalmente dal regime siriano per avvertire Tel Aviv sulle conseguenze di una sortita israeliana.
Ora, a più di sei mesi della rivolta e con quasi tremila morti tra i manifestanti antigovernativi, tra le voci dei paesi ostili si leva anche quella dei vecchi amici che fanno la voce grossa e tra questi è soprattutto la Turchia quella più critica, che più si è distanziata diplomaticamente dall’alleato di un tempo, e che sembra voler sfruttare maggiormente la crisi in corso a proprio vantaggio minacciando a più riprese il rais siriano di voler usare la forza per interrompere le violenze verso i civili e ponendosi come difensore dei popoli arabi. Sulla scia di tali avvertimenti la Turchia, insieme agli Stati Uniti e all’Unione Europea, ha incoraggiato la formazione di un fronte unitario dell’opposizione siriana con diverse iniziative diplomatiche (si possono ricordare quelli di Istanbul, Antalya e Bruxelles) che hanno come obiettivo quello di creare un soggetto politico da utilizzare come interlocutore internazionale sulla scia del CNT libico, in maniera tale da delegittimare l’oligarchia alawita.
Tuttavia, a prescindere dal lessico diplomatico di Ankara, bisogna leggere tra le righe i veri interessi turchi nei confronti della Siria che, a differenza di Mosca e Teheran, sono basati su interscambi economici di una certa importanza ed hanno come obiettivo finale la creazione di un mercato economico unificato tra Siria, Libano e Giordania che la pongano come nazione egemone nella regione. Stessa cosa vale per la Russia che, sebbene abbia più volte avvertito l’alleato siriano sulla necessità di aprire a delle riforme nei confronti della società civile e cessare immediatamente le violenze contro i cittadini, continua a difenderlo in sede internazionale tramite il proprio veto all’interno del Consiglio di Sicurezza dell’Onu. Tra gli amici comunque, il caso più emblematico resta l’Iran che, nonostante sia il più fidato tra gli alleati di Bashar al-Assad, ha mantenuto una posizione favorevole nei confronti della primavera araba e, senza accusare apertamente il regime siriano, ha avvertito della necessità di riforme strutturali a favore del popolo. Come evidenziato, l’interconnessione di interessi a più livelli tra diverse nazioni impongono una importanza fondamentale alla stabilità del regime e della nazione. Il presidente siriano sa bene di avere molte frecce nel proprio arco ed è consapevole di avere ancora un ampio margine di manovra per sedare le rivolte e riprendere in mano il paese, tuttavia gli avvertimenti di Teheran non sono da sottovalutare.
La caduta del regime degli Assad implicherebbe la rottura della “cintura sciita” e innescherebbe delle dinamiche incerte e potenzialmente destabilizzanti per tutta la regione soprattutto alla luce di una probabile reazione da parte di Hezbollah e indirettamente anche dell’Iran ad un ipotetico attacco militare da parte della Nato (vedi Turchia) o di Israele attraverso le frontiere del Golan; scenario che sicuramente sarebbe per le vicine potenze arabe, ed ovviamente per l’Unione Europea e gli Usa, maggiormente dannoso e pieno di incognite rispetto al mantenimento dello status quo attuale. Ciò spiega l’atteggiamento di relativa prudenza da parte delle potenze occidentali nei confronti del presidente siriano Bashar al-Assad tuttavia, comunque vadano le cose, una sola cosa è certa: le riforme sostanziali dovranno essere la strada da seguire per un regime che ha perso ogni credibilità interna ed internazionale.