Il gatto e la pipa
07 Novembre 2010
Stava effettuando quello scavo da sei mesi. Aveva sventrato una montagna per raggiungere quelle antiche cantine nell’America Latina. Erano i resti di alcuni depositi di oggetti vari che avrebbero fatto la sua fortuna: avrebbe esposto in un museo i frutti dei suoi sforzi e si sarebbe scavato una nicchia nella parete della celebrità.
Stava pensando a tutto questo quando sentì un boato: la galleria sotterranea alla montagna, a causa di una frana, aveva ceduto seppellendo gli operai che in quel momento vi stavano lavorando.
L’archeologo corse subito a constatare i danni, scoprendo con vivo sollievo che quel pugno di rarità, suo passaporto per la fama, era salvo.
***
Il professor Corbera stava potando le rose quella mattina. Dedicava molto spesso la mattinata alla cura della sua serra, dato che mirava al premio “Vette in giardino”, indetto come ogni anno dall’assessorato. Ovviamente, il premio, assolutamente simbolico, non poteva che essere una giardinetta.
La vittoria, però, gli sembrava pressoché impossibile, dato che ogni anno il premio veniva assegnato al barone Egon von Hoffmanstall, giallista boemo che abitava al poggio vicino a quello del professore.
Non che Corbera provasse antipatia per lui, anzi, lo trovava simpatico e brillante, ma il barone gli soffiava il premio da troppo tempo perché il suo orgoglio lo lasciasse in pace. Aveva intenzione di preparare il giardino sul modello di un labirinto del XVIII secolo. Un’opera grandiosa che gli stava comportando fatica e impegno, ma che sicuramente gli avrebbe fruttato, come un deposito di due miliardi in una banca svizzera.
Si stava concentrando per fare un miglioramento significativo, quando udì il cordless accanto a lui squillare. Mosse in modo sbagliato la mano e tagliò un rametto che gli serviva. Il suo grido si udì nei dintorni, facendo eco fra gli alberi. Avviò la comunicazione pensando che si trattasse di una macumba del boemo. Ascoltò il suo interlocutore, poi attaccò e corse a prepararsi. La telefonata che aveva ricevuto era ai limiti dell’aneurisma tanto era agitato quello che lo aveva chiamato.
Corbera spesso si chiedeva come mai certi Illustri sconosciuti avessero il suo numero di telefono. Sapeva, infatti, di non aver mai incontrato Antonio Estravo di professione archeologo, e di non c’entrare nulla con la devastante angoscia con cui, convulsamente, l’aveva implorato di parlargli quanto prima possibile.
Naturalmente, in condizioni normali, non ci sarebbe andato, ma sebbene personalmente non lo avesse mai visto, Estravo lo conosceva di nome: sapeva che era l’autore di un importantissimo scavo archeologico e il professore desiderava moltissimo vedere l’esposizione di quegli inestimabili reperti.
***
Corbera fu ricevuto nel museo in cui stava per essere aperto al pubblico l’allestimento dei pezzi ritrovati dall’archeologo. I musei vuoti hanno il fascino che può avere per un bambino il cassetto della scrivania del proprio padre.
Egli ricevette cordialmente il professore e disse:
«Grazie per essere venuto».
«Dovere, qual è il motivo per cui mi ha chiamato?».
«Un fatto gravissimo. Mentre ero in America a condurre gli scavi, una frana ha fatto cedere le assi che sorreggevano le volte della miniera uccidendo gli operai che vi stavano lavorando. Gli indigeni mi hanno ritenuto colpevole, e mi volevano linciare. Sono stato costretto a fuggire per non essere preso dai parenti delle vittime. All’aeroporto, un uomo mi ha detto che adesso la mia anima è dannata e che sono destinato a morire».
«Fino ad oggi ha ricevuto minacce di morte?».
«No, ma ascolti cosa mi è successo. Un’antica credenza indios dice che sacrificando un bene prezioso come l’amore della propria donna, il proprio figlio o un gioiello si riesce ad ottenere la salvezza. Come immagina, chiunque, in un momento simile, si aggrapperebbe a qualunque cosa gli dia speranza. Due notti fa sono andato al fiume e ho gettato nell’acqua un prezioso anello di diamanti appartenente alla mia famiglia da sei generazioni. Ieri sera, sono andato ad una cena per festeggiare il buon esito delle ricerche, ho ordinato una trota al cartoccio e al suo interno, ho ritrovato l’anello: il mio sacrificio era stato rifiutato».
«Capisco». Il professore si era fatto dubbioso. Aveva gli occhi fissi e vuoti, come perso in una vecchia favola. Chiese: «Chi si trovava a quella cena?».
«Eravamo in cinque: io, mia moglie, il mio aiutante, l’assistente degli scavi ed il proprietario del museo».
«Mi scriva i nomi e gli indirizzi di queste persone, per favore» disse Corbera porgendogli il proprio taccuino e la propria penna.
«Certo. Quindi accetta di aiutarmi?».
«Mi ha detto la verità?».
«Glielo giuro».
«Allora sì».
Dopo che Estravo terminò di scrivere, il professore lo salutò e gli disse che presto si sarebbero risentiti. Adesso sentiva la necessità di andare a consultarsi col commissario Falconeri.
***
In commissariato tutto sembrava stranamente, eccezionalmente, tranquillo.
«Sai chi mi ha chiamato stamattina?».
«Pierluigi Felli, lo scrittore?».
«No».
«Beh, ci ho provato».
«Antonio Estravo».
«L’archeologo?».
«Proprio lui. Mi ha chiesto di aiutarlo a scoprire chi lo vuole uccidere».
«Come sarebbe a dire?».
Il professore gli spiegò tutti gli avvenimenti come glieli aveva raccontati il suo assistito e poi gli confidò che:
«Non sono sicuro che mi abbia detto tutto».
«Cosa te lo fa pensare?».
«Non lo so, forse il suo modo di fare».
«In questo momento non posso darti attenzione: sto dietro a un’indagine tremenda».
«Mi arrangerò».
«Di tanto in tanto sarò disponibile».
«Ci vediamo».
***
Il professore organizzò l’ordine degli interrogatori. Il primo sarebbe stato l’aiutante dell’archeologo, Saverio Scorcia, residente in via Cavour venticinque.
Estravo gli aveva detto che era un ragazzo intorno ai vent’anni, anche se le rughe che gli solcavano il volto, avrebbero fatto supporre un’età più avanzata. In sostanza viveva da solo sommerso dalle sue ricerche.
Quando il professore bussò, gli venne ad aprire un uomo che dall’apparenza aveva trent’anni, occhi azzurri e capelli corvini, la carnagione chiara e i lineamenti forti denotavano un miscuglio di razze nelle sue vene.
Lo fece sedere e poi disse:
«Mi scusi se non le offro nulla, ma ho appena disfatto i bagagli e non ho messo in ordine».
«Non si preoccupi. Sono qui solo per farle qualche domanda».
«In merito a cosa?».
«Alla morte dei minatori durante il vostro scavo».
«Che pena, hanno fatto una morte orribile, spero solo che non abbiano sofferto».
«Chi aveva valutato la composizione della roccia e la struttura della perforazione?».
«L’assistente degli scavi».
«Il signor Guido Balestra, giusto?».
«Sì, lui aveva detto che era possibile scavare in quella montagna senza timori».
«Dopo l’incidente nessuno ha constatato le cause del crollo?».
«È stato attribuito da tutti ad una frana».
«Ma degli esperti hanno controllato?».
«No, non badano poi molto a questi “imprevisti”».
«Capisco. Le famiglie hanno avuto un risarcimento?».
«No, le confido che quegli operai lavoravano tutti con un contratto a scadenza, come sempre in queste cose, perché arriviamo lì e la manodopera la prendiamo sul posto… beh, proprio il giorno in cui sono morti il loro impegno era scaduto: avrebbero dovuto riscuotere il loro salario appena usciti dalla galleria».
«Ma suppongo che abbiano avuto almeno una degna sepoltura».
«Se lei, professore, ritiene che rimanere sotto le macerie di un crollo significa essere sepolti degnamente, allora sì».
«Che peccato».
«Concordo, ma almeno qualcuno ne ha ricavato qualcosa».
«Chi?».
«Il professor Estravo».
«Come mai?».
«Non li ha pagati».
«Nessuno si è rivalso per il lavoro dei propri familiari?».
«Eravamo partiti prima che potesse succedere».
«Quindi, quei poveretti, oltre ad aver perso i propri cari, non hanno avuto il denaro che spettava loro».
«Proprio così».
“Ma come fa quella carogna di archeologo a dormire sonni tranquilli con questo peso sulla coscienza?” pensò il professor Corbera chiedendo ancora:
«Mi può spiegare la dinamica del crollo?»
«Dunque, avevamo dissotterrato tutti i reperti, gli operai stavano facendo il giro delle gallerie per accertare che fosse tutto in ordine e che nulla fosse stato lasciato. Io mi trovavo vicino ad un vaso per vedere se era sano, quando d’un tratto ho sentito un forte boato di pietra che cadeva, urla strazianti e chiasso a non finire. In pochi minuti tutto fu sedato e ci ritrovammo noi della spedizione con una decina di operai sopravvissuti. Appena terminato il boato, io corsi a vedere cosa fosse successo, e vidi che il professor Estravo era già lì a constatare la frana che aveva seppellito la miniera».
«Grazie del suo aiuto».
«Quando vuole, professore».
***
L’assistente agli scavi era proprietario di un appartamentino molto grazioso al centro della città, affacciato sul gigantesco parco pubblico.
Il cartellino dell’interruttore del campanello della sua abitazione recava la scritta “dott. Guido Balestra”. Quando lo premette si sentì una musichetta (le prime note della quinta sinfonia di Beethoven). Il professore ci rimase. Balestra abitava in una casa molto accogliente, organizzata militarmente, ma calda e comoda grazie all’intervento dei colori vivaci e del legno chiaro.
In modo abbastanza sgarbato domandò cosa volesse e il professore gli spiegò le ragioni della sua visita. Costui disse poche, ma coincise parole. Rammentava che aveva visto il professor Estravo vicino alla miniera mentre controllava i danni e che non sapeva più nulla. Il professore gli chiese:
«Le informazioni di cui dispongo, indicano lei come la persona che dopo aver valutato la composizione della roccia della montagna scavata, aveva dato il via alle operazioni di recupero».
«Se cerca di accusarmi della frana, sappia che non può. Ho le competenze necessarie per accertare se un qualunque manto terrestre è idoneo a una qualunque operazione di scavo o costruzione: in quella montagna si poteva scavare senza nessun timore» disse Balestra senza enfasi.
«E allora mi spieghi come è stato possibile che sia avvenuto quello che è avvenuto».
«L’unica soluzione possibile è la manifestazione di una scossa di terremoto tanto debole da non essere avvertita da noi, ma tanto potente da aver provocato il crollo».
«Cosa ha fatto quando si è accorto del crollo?».
«Mi sono sporto dalla mia tenda e ho visto il professor Estravo che era all’imboccatura dello scavo a vedere cosa fosse accaduto».
«Mi sa dire l’attimo preciso in cui si è sporto dalla tenda?».
«Appena terminato il boato».
«Grazie per la sua collaborazione. Buongiorno».
«‘Giorno».
***
Ora toccava al proprietario del museo: Sigfrido Cadmio.
Era un arzillo settantenne che, essendo diventato ricco dopo la pensione grazie ad una serie di investimenti azzeccati, aveva voluto fornire il paese anche di museo di arte antica. Tra l’altro proprio lui aveva sovvenzionato la spedizione di Estravo.
Stava lì tutto il giorno, in un ufficio grande, fornito di bagno, cucina e bar, in cui spesso dormiva. E fu lì che il professore lo ritrovò.
Aveva bussato due volte, ma nulla, pensando che non ci fosse, andò dalla segretaria e gli disse di avvisarlo che era passato.
Circa due ore dopo essersene andato dal museo, Corbera ricevette sul cellulare una telefonata dalla segretaria di Sigfrido Cadmio che gli chiedeva di tornare subito indietro.
Il suo principale era stato trovato morto.
***
Appena giunto al museo, il professore superò il cordone della polizia e si apprestò a chiedere alla segretaria che cosa mai fosse successo. Era una donna di tinte scure, la pelle bianca e liscia, profilo delicato e mento pronunciato. Un insieme di luoghi comuni della fisiognomica.
Corbera le chiese:
«Come ha scoperto il corpo?».
«La signora Estravo aveva un regolare appuntamento col signor Cadmio, l’ho accompagnata e, non vedendolo, abbiamo cercato nella saletta attigua all’ufficio, la signora mi precedeva e, arrivata sulla soglia, mi ha bloccato dicendo “Non guardi”. Io mi sono coperta gli occhi e poi lei mi ha detto di chiamare la polizia e lei professore. E mi ha detto che c’era il mio principale coperto di sangue a causa di un proiettile» e “proiettile” si allungò in un pianto stridulo.
«Mi dica con precisione se avete toccato nulla».
«Dunque, mi faccia pensare. La signora Estravo l’ho fatta entrare prima di me, ci siamo dirette insieme per l’intera lunghezza dell’ufficio, ci abbiamo messo un po’ perché è molto grande… occupa tutto il piano, sa… aggiungendo il tempo usato per richiami, attese nel caso fosse i bagno e così via direi circa cinque minuti o qualcosa del genere».
«Grazie. Mi potrebbe essere stata molto utile».
La signora era seduta in poltrona, sorseggiando del gin. Si vedeva che era una donna di carattere forte. Non era per nulla sconvolta o stonata, anzi, sembrava che nei suoi occhi rilucesse una grande fermezza.
«Buongiorno signora».
«Buongiorno professore».
«Come ha trovato il corpo?».
«Senza dubbio le ha già detto tutto la segretaria. Io, conoscendo la fragilità dei suoi nervi, le ho voluto evitare quel terribile spettacolo: s’immagini che il sangue sgorgava ancora dalla ferita».
«Capisco».
Si dedicò allo studio della scena del delitto.
La poltrona su cui era stato trovato il cadavere era ancora zuppa di sangue, in un angolo vicino alla finestra. Ora aveva un’idea che forse lo avrebbe portato a scoprire l’assassino.
***
Il professor Corbera andò al reparto di medicina legale del policlinico: aveva bisogno del referto. Appena incontrò il dottore incaricato si fece dare quello che cercava. Il poveretto era stato ucciso con una pistola di piccolo calibro. “Geniale!” aveva pensato il professore ritornando a casa.
***
L’ufficio del defunto, aveva saputo, era dotato di un’uscita secondaria direttamente connessa al parcheggio.
L’assassino avrebbe potuto entrare di là senza essere osservato e scappare non appena avesse sentito i passi delle due donne.
Ma non era tutto tanto cristallino per Corbera. Non riusciva a vedere un movente valido per uccidere un povero vecchietto appassionato d’arte antica, anzi, trovava che fosse impossibile trovare un movente data la sua vita ineccepibile. Era un filantropo che non aveva mai avuto problemi di alcun genere: neanche un’unghia incarnita aveva turbato quella esistenza perfetta.
Per riflettere meglio scese nella tavernetta. I mattoni rossi intervallati da strisce di cemento erano a vista, alle pareti opere eseguite dallo stesso Corbera, poltrone di pelle marrone rendevano l’ambiente grazioso e accogliente. In mezzo c’era anche un biliardo per svagarsi durante i giorni estivi in cui quell’ambiente fresco e sotterraneo fungeva da rifugio anticaldo. Si sedette su una poltrona e tirò la leva laterale, facendole uscire il poggiapiedi e reclinando contemporaneamente lo schienale.
Era di una comodità incredibile e non fece in tempo a sistemarsi che già dormiva. L’ultima cosa che riuscì a ricordare fu che, all’ora in cui era morto il vecchio, la persona che non aveva alibi era Antonio Estravo.
Dopo circa due ore si svegliò. Aveva sognato come gli eventi si erano svolti sulla scena del delitto. E, a meno che non fosse un sogno tremendamente ingannevole, ora sapeva com’era andata. Con un gatto e una pipa di mezzo che, però, non c’entravano nulla.
La ricostruzione sognata era incredibile e perfetta. Molto simile a quella che aveva immaginato da sveglio, ma senza quella pellicola di vero che le cose hanno nella realtà. Eppure, in sogno, tutto sembrava molto più vero e reale paradossalmente: i contorni dei visi erano precisi, gli orari, le coordinate spazio- temporali, le voci, i moventi e così via.
Sapeva ciò che doveva fare e sapeva anche come far uscire allo scoperto quell’assassino che tanto abilmente aveva dissimulato la realtà (cosa che, forse, in un sogno, non gli sarebbe riuscita: come si fa a dissimulare ciò che si sogna?).
Come prima cosa salì al pianterreno e telefonò a Falconeri per chiedergli di contattare le persone coinvolte e di dir loro di farsi trovare nel giro di un’ora nell’ufficio di Sigfrido Cadmio.
Il piano che aveva in mente era un po’ rischioso e l’omicida avrebbe potuto approfittare della situazione a lui tanto favorevole. Il professor Corbera lo sapeva, ma in fondo gliene importava poco o nulla della persona che sarebbe potuta morire: per i gusti del professore si era macchiata di troppe colpe perché si potesse provare ancora pietà per la sua fine.
***
«La festa sta per iniziare: gli “invitati” sono arrivati».
«Falli entrare».
Per primo entrò Saverio Scorcia, seguito dalla moglie di Estravo, quest’ultimo e poi Guido Balestra.
Il professore aveva ben chiaro in mente il piano di azione che avrebbe dovuto seguire:
«Dunque, signori, vi ho convocati perché intendo portare alla vostra attenzione due misfatti gravissimi: una strage a fini di lucro e un omicidio per vendetta. Per prima cosa, vorrei che lei signor Scorcia e lei signor Balestra scriveste su questi due fogli il posto i cui vi trovavate al momento del frastuono del crollo».
I due eseguirono senza far vedere nulla all’altro e poi dettero a Corbera i fogli. Quest’ultimo, li lesse e poi li mise sul tavolo.
Entrambi recavano la scritta “tenda dei reperti”. Il professore continuò:
«Come potete vedere, entrambi erano nello stesso posto, ma quando mi avete incontrato non me lo avete detto. Entrambi avete affermato, immediatamente dopo il frastuono del crollo, di aver sporto la testa per vedere che cosa fosse accaduto e di aver visto solo il professor Estravo davanti all’imboccatura della miniera. Ma come è possibile che solo il professore fosse lì? Come è possibile che entrambi siate stati nello stesso posto senza accorgervene? Da ciò deduco che uno di voi mi ha mentito. Questa persona è lei signor Scorcia».
«Ma…».
«Inutile mentire ancora. Lei fu incaricato dal defunto Cadmio, il finanziatore della spedizione, di eliminare quanti più minatori fosse possibile per ridurre al minimo le spese. Quando sono venuto a casa sua mi ha detto che i bagagli erano ancora da disfare, mentre quando sono stato da Balestra tutto era in ordine. Allora ho riflettuto: perché non è riuscito a disfare i bagagli? Molto probabilmente non ne ha avuto il tempo. Perché non ne ha avuto il tempo? Perché ha fatto dell’altro. Siete ritornati dalla spedizione circa tre giorni fa. In questo tempo lei è dovuto passare da Cadmio a riscuotere la sua ricompensa per l’omicidio dei minatori e recuperare dal fiume l’anello del professor Estravo».
«Ma allora sei stato tu» intervenne l’archeologo.
«Sì!» sibilò Scorcia con astio «Potevi risarcire i parenti delle vittime. Non avrebbero certo preso il salario pieno, ma almeno qualcosa».
«Infatti scommetto che era un suo complice l’uomo che all’aeroporto predisse la morte di Estravo».
«Sì, professore. Non avevo tollerato il suo comportamento».
«Ma lei non si rende conto che il suo delitto è ben maggiore?».
Quello non rispose.
«Quindi, professore, lui non mi voleva uccidere, ma solo spaventare».
«Sì. Voleva che vivesse ogni giorno della sua vita con questo rimorso e la paura di una morte atroce. Risolta questa questione, che in sé era appena appena pittoresca, non ci resta che quella della morte di Sigfrido Cadmio».
Si schiarì un momento la voce, poi continuò:
«Questo omicidio è stato realizzato con genialità. L’omicida ha avuto un’idea molto interessante: uccidere Cadmio prima con un sistema che non lasciasse tracce e poi con un colpo di pistola in modo che la morte sembrasse seguente. Sapeva che il vecchio aveva ordinato la morte degli operai e voleva punirlo insieme a colui il quale riteneva responsabile dell’atto materiale. Sto forse sbagliando signora Estravo?».
«Come?» disse quella.
«Lei è entrata dall’ingresso posteriore e, appena ha visto Cadmio, gli ha sparato. Ma non con una pistola. Quando ho visto il cadavere ho notato un forellino al livello della trachea. Non sapevo cosa fosse e poi ho capito: ha otturato l’ago di una siringa, l’ha riempita di acqua e poi, quando si è trovata davanti a Cadmio, ha premuto lo stantuffo e l’ago è andato a conficcarsi nel collo del vecchio».
«È forse impazzito?».
«Poi è uscita e, dopo aver fatto trascorrere un po’ di tempo, è entrata dalla porta principale. Quando ha visto sulla poltrona il cadavere della sua vittima, ha detto alla segretaria di non guardare. In realtà non c’era nulla di spaventoso, ma basta che venga detto a qualcuno di non guardare e, istintivamente, quello non guarda. Nel momento in cui la segretaria (su sua richiesta) era al telefono, ha sparato col silenziatore al cadavere già esanime in modo che per la balistica risultasse ucciso in un momento in cui suo marito (che riteneva responsabile della tragedia avvenuta in America) era senza alibi. Signora, non le serve mentire ulteriormente».
«Sono una donna paziente, ma non ho sopportato quello che è successo… quello che…».
Il commissario la fece portare via.
***
Quella sera aveva invitato a casa il commissario Falconeri e Egon von Hoffmanstall. Erano stati invitati per una cenetta leggera, un buon sigaro e un cognacchino. Dopo la cenetta, i tre si raccolsero nella sala lettura, ma non fumarono. Parlarono del concorso di giardinaggio.
Il professore comunicò il suo punto di vista:
«Eh!, mio caro barone, credo proprio che quest’anno lo vincerò io il premio».
«Cosa la rende tanto sicuro, Corbera?».
«Il progetto che ho intenzione di presentare è meraviglioso».
«Perché non ha ancora visto il mio».
«Cosa ha intenzione di presentare?».
«Lo dica prima lei».
«No, prima lei».
«Preferisco che lo dica prima lei».
«Meglio lei».
«No, lei».
«Lo diremo contemporaneamente, va bene?».
«Va bene e il commissario Falconeri darà il via».
«Pronti? Via!» disse Falconeri.
«Un labirinto del XVIII secolo» dissero entrambi.
FINE