Il governo Berlusconi qualcosa di liberale l’ha fatto: il pareggio di bilancio

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Il governo Berlusconi qualcosa di liberale l’ha fatto: il pareggio di bilancio

19 Luglio 2011

Il morettiano je accuse lanciato da Antonio Martino nei confronti del governo (“Governo Berlusconi di’ qualcosa di liberale!”), reo di aver del tutto trascurato le promesse liberali sulle quali aveva costruito la propria fortuna, non merita di essere archiviato frettolosamente come uno dei tanti casi di manifestazione di dissenso politico animata da rancori e recriminazioni personali. Certo Martino non ha trovato nell’attuale fase politica un adeguato spazio e, immaginiamo, possa per questo avvertire una frustrazione ed una sensazione di delusione verso chi guida un movimento politico che egli aveva, da posizioni non secondarie, contribuito a far nascere. Ma l’intelligenza e l’autorevolezza del professor Martino sono tali che le sue argomentazioni meritano di essere in ogni caso prese sul serio. A maggior ragione da coloro che credono che i principi liberali possano essere la salda guida con la quale procedere nel tortuoso e periglioso cammino della gestione della cosa pubblica nell’età della crisi economica e finanziaria.

E allora, ha ragione o ha torto Martino quando accusa il Governo di non aver fatto in questi anni assolutamente nulla che possa essere ragionevolmente definito liberale? La linea difensiva consolidata dalle parti del centro destra è nota. Qualcosa abbiamo fatto, molto abbiamo provato a fare ma ci è stato impedito dalla resistenza ostinata dei conservatorismi e dei corporativismi della società italiana e dei suoi gruppi di potere. Una linea che per la verità ha più di un fondamento di verità. Basti pensare alla reazione furibonda che scatenò la proposta di riforma delle pensioni avanzata nel 1994 dal primo Governo Berlusconi o le manifestazioni di piazza che scatenò la proposta del 2003 di riformare l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori (la sconfitta della quale pagano oggi a caro prezzo milioni di giovani precari). O, più di recente, basti pensare all’esito bulgaro del referendum di quest’anno sulla cosiddetta privatizzazione dell’acqua, che in realtà era diretto ad abrogare una norma che semplicemente mirava ad introdurre qualche ragionevole dose di mercato nella gestione dei servizi pubblici locali, ovvero in quella sorta di socialismo municipale che infesta la nostra economia e deprime la nostra produttività.

Sono tutti episodi rivelatori di un dato con il quale, piaccia o non piaccia, occorre fare i conti. La società italiana, l’opinione pubblica non è, almeno per la sua maggioranza, assai incline a riforme radicali in senso liberale. Nonostante la crisi morda, nonostante siano sempre maggiori le intollerabili ingiustizie fra chi (sempre meno) è riuscito ad entrare nel recinto dei protetti e chi (sempre di più) è costretto a nuotare nel mare aperto del mercato, nonostante sia sempre più evidente come la filosofia welfarista del tutto gratis a tutti finisca per danneggiare proprio chi verrebbe proteggere, gli Italiani preferiscono comunque difendere le (poche) garanzie di cui godono piuttosto che imbarcarsi in una rivoluzione liberale della quale sono certi i benefici generali ma dalla quale ciascuno teme di perdere qualche beneficio particolare. Del resto questo è un Paese dove mentre nessuno dei milioni di giovani precari costretto alla precarietà da un mercato del lavoro segmentato che tutela solo i dipendenti pubblici e gli addetti di mezza età della grande industria del Nord si sogna di mobilitarsi per difendere il proprio futuro, non appena il Governo si azzarda a ridurre gli stanziamenti del Fondo Unico per lo Spettacolo migliaia di attricette e di registucoli riescono ad imbandire una grande campagna di opinione a difesa delle proprie rendite.

Ma se questo è vero è allora vero che in Italia un Governo per poter attuare riforme in senso liberale deve compiere un’attenta verifica sulle compatibilità e sulla tempistica delle stesse. Troppe volte, in passato, iniziative liberali un po’ garibaldine sono andate a sbattere contro il muro della conservazione e, in tal modo, non solo hanno fallito l’obiettivo ma hanno anche determinato un arretramento complessivo della politica. E non è un caso che le cose liberali migliori il Governo è riuscito a farle solo quando è riuscito a rompere il muro della conservazione ed a portare con sé almeno una parte del mondo delle categorie e del sindacato. Basti pensare alla riforma del mercato del lavoro e delle relazioni industriali (da ultimo tradotte nell’accordo di Pomigliano) o alla riforma del sistema previdenziale (con l’aggancio automatico alle aspettative di vita). Certo sono riforme solo parziali che lasciano irrisolti alcuni nodi. Ma, vivaddio, sono riforme fatte e non solo teorizzate!

Ma il dissenso dal professor Martino non è solo in punta di realismo politico. Comprendiamo, ed in una certa misura condividiamo, le perplessità di Martino su alcune delle misure contenute nella manovra appena licenziata dal Parlamento. Ma ci sembra che il professore forse preso dall’analisi puntuale dei singoli pezzi si sia distratto ed abbia trascurato il valore complessivo della manovra. Valore che ad un liberale autentico, quale Martino, dovrebbe riempire il cuore. Per la prima volta nella storia della Repubblica Italiana un governo vara una manovra finanziaria che si pone l’obiettivo di realizzare nel triennio il PAREGGIO DEL BILANCIO. Nessuno c’è mai riuscito. Nessuno ci aveva nemmeno mai provato. La stessa parola “pareggio del bilancio” è stata, per decenni, impronunciabile. Ora lasciamo per un attimo da parte il come, lasciamo da parte anche se ci si riuscirà davvero. In ogni caso resta il fatto che essere riusciti a parlare al Paese e a dirgli che sebbene facendo sopportare alcuni sacrifici l’obiettivo del governo e portare in pareggio il bilancio dello Stato, è un enorme risultato liberale.

Troppo spesso, vittime della invadente retorica europeista, siamo portati a credere che il saldo del bilancio dello Stato sia un fatto meramente contabile. Una questione da eurotecnocrati o da nani della finanza speculativa. Il pareggio del bilancio,invece, è l’architrave di una buona politica liberale perché costituisce il più efficace deterrente all’aumento della spesa pubblica ovvero all’espansione dello Stato e quindi alla contrazione della libertà individuale. Se veramente nel 2014 il nostro bilancio sarà in pareggio vorrà dire che avremo realizzato il sogno di Luigi Einaudi che proprio per questo volle mettere in Costituzione una norma, l’articolo 81, che doveva servire allo scopo, ma che fu aggirata e sbeffeggiata in tutti modi dai cantori delle politiche Keynesiane del deficit spending. E se avremo realizzato il sogno einaudiano sarà anche più dolce dover digerire le mancate riforme liberali.