Il governo dei “pagherò”
12 Marzo 2019
C’è una costante nel modo in cui la maggioranza di governo ha fin qui risolto le proprie controversie interne: il rinvio a titolo oneroso. In alcuni casi (vedi Tav) si è preso tempo sulle determinazioni finali grazie alle fumisterie giuridico-lessicali dell’abile avvocato Conte, che in questi giorni ad esempio hanno consentito ai gialli di sostenere che la Torino-Lione si è fermata e ai verdi di affermare che il treno è invece partito, salvo la possibilità di dire “abbiamo scherzato” con tutto ciò che ne consegue in termini di costi diretti e indiretti.
In altri casi (vedi legge di bilancio) a essere state differite nel tempo sono le conseguenze delle scelte compiute. La costosissima manovra finanziaria, il cui piatto forte è il reddito di cittadinanza, si regge infatti su clausole di salvaguardia mostruose – 23 miliardi di euro per il solo 2020 –, ovvero una cambiale pesantissima che il popolo italiano sarà chiamato in qualche modo a pagare.
L’obiettivo del governo è stato fin dall’inizio, con ogni evidenza, arrivare alle europee di fine maggio avanzando qualche credito da spendere presso gli elettori (sullo stile dei 500 euro per i diciottenni di renziana memoria) e senza accollarsi l’onere di decisioni sgradite all’elettorato dell’uno o dell’altro contraente. I dossier più scottanti sono dunque stati risolti sottoscrivendo dei “pagherò” a spese dei cittadini, illudendo questi ultimi che il conto potrà essere saldato a data da destinarsi, in attesa di tempi migliori, quando magari il reddito di cittadinanza avrà dispiegato i suoi effetti miracolosi (sic!) sull’economia italiana.
In realtà così non è: i “pagherò” portano una data di scadenza, e in autunno ce ne verrà chiesto conto. Col rischio che tra avvocati del popolo e manovre del popolo, al popolo restino in mano soltanto le cambiali.