Il governo delle tasse pensa che la Chiesa sia un’agenzia delle entrate

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Il governo delle tasse pensa che la Chiesa sia un’agenzia delle entrate

02 Agosto 2007

Nelle calde giornate d’estate può persino
accadere che il premier di una potenza economica mondiale come l’Italia giunga al paradosso di rivolgersi alle gerarchie della Chiesa cattolica affinché
predichino dall’altare l’immoralità dell’evasione fiscale. Il paradosso in
realtà rinvia ad un numero notevole di altri paradossi: a chiedere l’intervento
delle gerarchie vaticane sarebbe il “cattolico adulto” che ha rimproverato non
troppo tempo fa le stesse di essere troppo loquaci ed ingerenti; che l’invito
al pagamento del tributo assomigli tanto al tradizionale uso strumentale della
Chiesa da parte delle più classiche autorità politiche autoritarie e
totalitarie: religio instrumentum
regni
.

Prodi sostiene che sarebbe “in
gioco l’esistenza stessa dell’autorità dello Stato, e quindi del bene comune”, come se il
bene comune coincidesse con lo Stato! In molti che hanno contribuito alla
storia del pensiero politico liberale (cattolici e non) si stanno rigirando
nella tomba. Inoltre, il paradosso rinvia al fatto che non si considera una
banalissima realtà: non esiste una sola modalità di regime fiscale, quindi
perchè mai un premier dovrebbe pretendere che la propria ricetta fiscale sia
più morale di un’altra? Il problema è abbastanza serio.

Ogni paese ed ogni
governo, potenzialmente (ed effettivamente), adottano un regime fiscale che gli
è proprio, chi proporzionale, chi progressivo, chi flat; chi una qualsiasi combinazione di questi ed altri modelli. È
davvero pretenzioso ed incomprensibile immaginare che la Chiesa impegni la
propria dottrina ed il proprio magistero a giudicare quale sistema sia più
morale dell’altro. Così come appare evidentemente refrattario al buon senso che
un leader politico (legittimamente di parte) chieda che sia canonizzata la sua
ricetta politica. Ciò che la tradizione del Magistero sociale insegna è che
ciascuna persona per vocazione è chiamata in quanto imago Dei a contribuire con le proprie energie e sostanze
all’edificazione del bene comune. Egli, dal momento che è stato creato ad
immagine e somiglianza del Creatore, ne condivide in un certo senso la
vocazione a rendere più accogliente ed ospitale il mondo nel quale vive. La fa lavorando, intraprendendo, ricercando ed anche
versando il proprio tributo. È chiaro che non è possibile ridurre il contributo
al bene comune a nessuno di questi singoli – ed altri singoli – elementi.

Invero, analizzando il concetto di bene comune, si rende
necessaria la distinzione fra il suo oggetto formale ed il suo contenuto
materiale. Formalmente il bene comune non muta al variare delle circostanze,
mentre il contenuto materiale cambia
radicalmente. Oggi, ad esempio, il concetto di bene comune richiama
l’attenzione dei governanti su aspetti del tutto ignorati nelle precedenti
epoche: assistenza medica, autostrade, controllo dei tassi d’inflazione,
istruzione pubblica, diritto al lavoro, bilancio dello Stato in pareggio, etc…
Riflettendo sull’oggetto materiale – avendo come orizzonte di riferimento il
contenuto stesso della dottrina sociale della Chiesa –, in un’economia di
mercato che punti ad una crescita prolungata e stabile, tra le altre opzioni, si
rende indispensabile una costituzione fiscale che contemperi ragioni di equità
e di sviluppo. In questo contesto, come ha giustamente fatto notare il prof.
Francesco Forte nel suo breve saggio: L’etica
della tassazione
(Magna Carta, 2007),
al mercato spetta il compito primario di rendere possibile la crescita
economica.

Dunque, il fisco è concepito come il sistema dei prezzi dei servizi
che il pubblico offre agli individui, alle famiglie e alle imprese. Sicché, una
costituzione fiscale adeguata dovrà tutelare e premiare chi risparmia, coloro
che con le loro attività aumentano la produttività del lavoro, nonché chi, in forza
della creatività e della “prontezza imprenditoriale”, rischia innovando. L’indispensabile
indicazione di un limite del deficit pubblico comporta necessariamente un margine
alle spese da parte dell’ente che determina il livello fiscale. Di conseguenza,
la quantità e la qualità della spesa finiscono per interessare direttamente i
singoli, le famiglie e le imprese, i quali altro non sono se non i terminali di
quella spesa per la quale pagano le imposte.

Si comprende come il disequilibrio tra spese ed imposte
rappresenti la prima ragione della mancata crescita economica e la fondamentale
causa dell’impossibilità da parte dell’ente pubblico di offrire servizi
adeguati rispetto al carico fiscale. Sicché, la cifra dell’equità di un sistema
fiscale (giustizia contributiva) dipende innanzitutto dal modo in cui viene
decisa e gestita la spesa pubblica: in questo senso ha ragione da vendere Mons.
Forte; con quale credibilità il premier chiede ai sacerdoti di dargli una mano
a far pagare le tasse ai cittadini italiani,
tasse che l’operatore pubblico è solito dilapidare così allegramente?

È tramite il corretto controllo della spesa che si può
rendere tollerabile e quindi non oppressivo il sistema fiscale, riducendo così
anche quei fenomeni di corruzione e di concussione che tanto danneggiano il
comparto economico ed il sistema politico. L’equivoco dal quale bisognerebbe
fuoriuscire è quello di considerare l’erario una sorta di reificazione del ben
comune. Esso è piuttosto il meccanismo burocratico mediante il quale si
concorda il prezzo che il cittadino paga per i beni che decide di produrre
mediante l’operatore pubblico (F. Forte), in quanto non ritiene (a torto o a
ragione) che debba essere il mercato a produrli. L’analisi economica ci propone
diversi modalità per definire il possibile punto di equilibrio tra domanda di
beni prodotti dall’operatore pubblico e il costo di tale produzione. Compito
della politica è quello di mostrare le diverse opportunità che il cittadino
elettore è chiamato a scegliere secondo il più classico degli aforismi delle
società liberal-dmocratiche: no taxation without
representation
.

La quantità e la qualità di un qualsiasi regime fiscale
dipendono da scelte politiche, rispetto alle quali non sono estranee matrici
culturali ed antropologiche. La
dottrina sociale della Chiesa, pur non determinando proposte di riforma
tributaria, è in grado di offrire un chiaro riferimento antropologico che si
esplica nella centralità della persona: immagine visibile del Dio invisibile.
Questa si definisce e si riconosce nella misura in cui si apre ed incontra la
figura dell’Altro, un Altro trascendente, il quale Lo invita
all’incontro con tanti altri che gli
sono prossimi e con i quali ha la stupefacente opportunità di dar vita ad un
ordine sociale libero e virtuoso.

I principi di solidarietà e di sussidiarietà
rappresentano i cardini empirici della moderna dottrina sociale della Chiesa.
In questa prospettiva, il compito della politica, utilizzando anche la leva
fiscale, dovrebbe essere quello di organizzare la solidarietà, catalizzando
tutte le energie della società civile e sviluppando la partecipazione di tutti
i cittadini ad edificare una società più umana, ciascuno in base alle proprie
capacità, inclinazioni e possibilità. Un governo attivo, ma non interventista, non
si limita a gestire in modo rassegnato l’ordinario – sarebbe sufficiente un
bravo ragioniere; al contrario, dovrà ispirare, stimolare ed aiutare l’opera
della società civile, legiferando ed elaborando politiche fiscali che
incoraggino i cittadini a diventare a loro volta attivi e solidali l’uno con
l’altro.