Il guaio di Renzi è il Pd locale
01 Luglio 2015
Ignazio Marino, Rosario Crocetta, Vincenzo De Luca e il PD. Casi complessi, tra loro assai differenti eppure legati da un comune denominatore: tutti e tre, chi per un motivo chi per un altro, sono in rotta di collisione con Matteo Renzi. Pur senza entrare nello specifico, basti solo segnalare che le vicende con protagonisti il sindaco di Roma, il governatore della Sicilia e quello (sospeso) della Campania, sono paradigmatici dello stato di salute del primo partito italiano. Che al momento appare pessimo.
Non lo dicono soltanto i sondaggi, che fanno registrare una perdita secca rispetto all’exploit delle Europee di un anno fa, e non ci si dovrebbe neppure limitare a sostenere che il calo di fiducia sia il riflesso esclusivo di un’azione di governo che, pur con i suoi limiti, sta comunque riuscendo a tenere dritta la barra del Paese navigando in un mare tempestoso. A fare difetto al Partito democratico è piuttosto qualcos’altro, ossia la scarsa incisività dimostrata da Matteo Renzi nel percorrere fino in fondo la strada che conduce al consolidamento del suo potere interno. Il Rottamatore, in altri termini, sta faticando non poco per fare del partito di cui è segretario un organismo politico a propria immagine e somiglianza.
Magari il giovane premier si sarà illuso che gli effetti benefici del carisma potessero da soli bastare a rimuovere la gabbia dei condizionamenti correntizi, che l’uso sapiente e spregiudicato delle tecnologie moderne superasse d’incanto i limiti strutturali del pachiderma democratico, che lo storytelling e il dato emozionale fornissero linfa nuova a quella comunità che con Bersani si era fermata al capitolo di un "abbiamo vinto, ma non siamo stati i soli".
E invece no, caro Renzi. La leadership personalizzata, lo insegna la storia politica, finisce per rivelarsi un’arma scarica quando non coincide con una reale innovazione della struttura organizzativa del partito; le primarie, da strumento innovativo, si trasformano in boomerang se prive di regolamentazione; le trasformazioni che investono la struttura direzionale, se non intaccano il potere dei cacicchi locali, non sono altro che l’espediente tattico destinato a sanzionare una libertà d’azione del segretario che fa a pugni con i dati della realtà. I risultati del PD alle recenti amministrative lo confermano in pieno.
Come correre ai ripari ? Non certo, magari non solo, con l’idea di abbinare al prossimo appuntamento elettorale per il rinnovo dei consigli comunali di alcune grandi città il referendum confermativo sulla riforma costituzionale. Si continuerebbe infatti a sperare esclusivamente nella forza trainante e salvifica della leadership. Serve altro. Serve una rivoluzione sui territori, quella che il premier-segretario non ha ancora avuto la forza di fare.