Il Kirghizstan alla conta dei voti dopo i tumulti estivi

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Il Kirghizstan alla conta dei voti dopo i tumulti estivi

15 Ottobre 2010

Il 10 ottobre in Kirghizstan si sono svolte le elezioni politiche che daranno al martoriato Paese centroasiatico un nuovo Parlamento. Dall’aprile scorso, in seguito alla cacciata del presidente Bakiev, padrone della politica e dell’economia nazionale, si è aperto un periodo di instabilità, culminato nei cruenti disordini delle province meridionali rimaste a lui fedeli, divenute nel mese di giugno teatro di efferate violenze. Circa 3mila persone appartenenti alla minoranza uzbeka sono state uccise per mano della maggioranza kirghiza, mentre ben più di 300mila perseguitati sono stati costretti alla fuga nel vicino Uzbekistan. Molti non hanno tuttora fatto ritorno in quel che resta delle loro case.

La tensione nel Paese è tale che persino la decisione assunta dall’OSCE il 22 agosto scorso, di inviare un nucleo di polizia internazionale a sostegno della pacificazione nelle province meridionali, è risultata essere un ulteriore motivo di attrito, avendo generato nei nazionalisti kirghizi il timore che si creassero condizioni per le quali la minoranza uzbeka avrebbe potuto costituire una provincia autonoma nella parte meridionale del Paese, sul modello di quanto avvenuto per il Kosovo.

In questo clima di precaria stabilità, il 10 settembre si è aperta ufficialmente la campagna elettorale, costantemente monitorata dagli osservatori dell’OSCE. Il forte sospetto di brogli che gravava sulle precedenti competizioni del 2005 e del 2007 ha indotto l’Ufficio del procuratore generale ad avviare un’inchiesta specifica, in un crescendo di attenzione sull’imminente tornata elettorale. Un ruolo particolare ha svolto la Commissione elettorale centrale, garante della stampa di 2milioni e 800mila schede elettorali, realizzate tra controlli rigidissimi, dieci giorni prima delle votazioni, al fine di evitare la circolazione di più schede di quelle strettamente necessarie alle operazioni di voto.

Su queste elezioni sono maturate grandi aspettative, poiché si tratta delle prime avvenute dopo il referendum costituzionale del 26 giugno scorso che ha decretato il passaggio dal presidenzialismo, associato allo strapotere e al malcostume del governo di Bakiev, al nuovo corso del parlamentarismo, caso unico in Asia Centrale. Inoltre, l’assenza di un potere centrale forte e l’indipendenza della Commissione elettorale sono sembrate un’ulteriore garanzia per lo svolgimento di elezioni realmente free and fair.

La legge elettorale kirghiza stabilisce che i 29 partiti registrati presentino ciascuno una lista con 120 candidati, dei quali il 30% donne e il 15% appartenente a minoranze etniche (russi, uzbeki, ucraini, uiguri). Il partito che ottiene almeno il 5% dei suffragi nelle 9 province e in due maggiori centri urbani ottiene seggi in Parlamento in numero proporzionale alla percentuale di votanti ottenuta, ma mai in numero superiore ai 65.

Tali disposizioni suscitano almeno due critiche.

L’elevato numero di candidati da presentare per ciascuna lista ha fatto sì che circa il 30% venisse reclutato tra i disoccupati e la restante parte tra i membri della famiglia estesa dei leader di partito, ricreando uno schema di gestione clanica del potere, tipico della regione centroasiatica e base del corrotto regime del presidente cacciato con i moti dello scorso aprile. Inoltre, il dover ottenere una soglia minima di voti in tutte le province e nei maggiori centri urbani rappresenta un vantaggio per le grandi e già note formazioni politiche, a discapito dei partiti piccoli e nuovi.

Nonostante le criticità dei mesi precedenti, la campagna elettorale si è svolta in una cornice di relativa correttezza, tanto che l’OSCE ha riconosciuto che a ciascun partito in competizione è stato concesso spazio sufficiente per farsi conoscere e diffondere i propri programmi.

A tali considerazioni positive, si sono aggiunte quelle dei leader dei Comitati esecutivi dell’EurAsEc, dell’Organizzazione di Shanghai per la Cooperazione-SCO, della Comunità di Stati Indipendenti-CSI e dell’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva-CSTO, i quali, nel corso di una riunione avvenuta a Mosca il 14 ottobre, hanno applaudito al buon andamento delle votazioni. Un osservatore indipendente del sito ferghana.ru riferisce tuttavia che, contrariamente a quanto generalmente sostenuto per il resto del Paese, la competizione elettorale nelle province meridionali di Osh e Jalal Abad si è svolta con criteri tutt’altro che corretti e trasparenti, denunciando persino compravendita di voti.

Mentre si attende l’imminente proclamazione ufficiale dei risultati elettorali, il quadro che emerge dalle votazioni rappresenta un ritorno al passato, piuttosto che la tanto annunciata ventata di novità, riflettendo piuttosto i limiti di un sistema democratico ancora immaturo, nel quale le quote di potere restano tendenzialmente nelle mani degli uomini politici già consolidati e delle lobby più potenti.

I partiti che hanno ottenuto la maggioranza dei voti sono: Ata-Zhurt, di impronta nazionalista, molto radicato nel sud e, quindi, vicino a Bakiev (percentuale di preferenze 8.88%, 28 seggi); il socialdemocratico SDPK, pro parlamentare e filoamericano, guidato dal presidente ad interim Roza Otunbaeva (percentuale di preferenze 8.04%, 26 seggi); Ar-Namys, filorusso e antiparlamentarista, guidato da Feliks Kulov, primo ministro al tempo del presidente Bakiev (percentuale di preferenze 7.74%, 25 seggi); Respublica, guidato da un’elite economica (percentuale di preferenze 7.24%, 23 seggi); Ata-Meken, schierato su posizioni di centrodestra (percentuale di preferenze 5.6%, 18 seggi).

Date le diverse tendenze dei partiti vincitori, risulta difficile ipotizzare una possibile convergenza di tutti su posizioni comuni. Sembrerebbe profilarsi piuttosto una maggioranza di governo vicina alle posizioni del presidente fuggiasco, quindi etnicamente kirghiza e con forti radici al sud del Paese, nelle province che tuttora stentano a tornare alla normalità dopo i fatti di sangue che le hanno recentemente sconvolte.

In ogni caso, si può sostenere che l’esito elettorale sia stato potenzialmente favorevole agli interessi russi. Infatti, la Russia, da sempre vicina alla piccola repubblica centroasiatica e partecipe delle sue alterne fortune, si è mostrata chiaramente contraria all’evoluzione in senso parlamentare scaturita dal referendum costituzionale, ritenendola inadatta a governare situazioni di crisi e, comunque, non congeniale alla gestione degli intensi rapporti bilaterali, che vanno necessariamente mantenuti a ottimi livelli. Attualmente, la Russia è il principale partner commerciale del Kirghizstan e suo grande finanziatore, oltre che affittuario della base militare “Kant”, nei pressi della capitale, e di un’altra, formalmente della CSTO, nel sud del Paese.

Dal canto loro, gli Stati Uniti, che si erano dimostrati sostenitori delle posizioni innovative della presidente ad interim Roza Otunbaeva e che avevano ricevuto assicurazioni riguardo al mantenimento della base di transito “Manas” per i rifornimenti alla coalizione multinazionale attiva in Afghanistan, si trovano ora a dover attendere quale nuova coalizione emergerà dal dibattito politico interno al Kirghizstan e, soprattutto, in quale misura questa intenderà proseguire nel sostegno logistico alle operazioni nel teatro afgano.