Il Libano resta senza un governo e l’omicidio Hariri senza colpevoli

Banner Occidentale
Banner Occidentale
Dona oggi

Fai una donazione!

Gli articoli dell’Occidentale sono liberi perché vogliamo che li leggano tante persone. Ma scriverli, verificarli e pubblicarli ha un costo. Se hai a cuore un’informazione approfondita e accurata puoi darci una mano facendo una libera donazione da sostenitore online. Più saranno le donazioni verso l’Occidentale, più reportage e commenti potremo pubblicare.

Il Libano resta senza un governo e l’omicidio Hariri senza colpevoli

02 Ottobre 2009

Il ministro degli Esteri egiziano Gheit è preoccupato. Denuncia interferenze nella formazione del nuovo governo in Libano, “influenze straniere che stanno bloccando la formazione dell’esecutivo”. Ma da parte di chi? L’Iran, probabilmente, e la Siria: “sappiamo – ha detto Gheit – che Damasco ha un interesse storico e strategico sul Libano”.

Intanto, mentre il presidente libanese Suleiman affida per la seconda volta al leader della maggioranza Hariri l’incarico di formare il nuovo governo, sale sul banco degli imputati della Corte Suprema Federale di Abu Dhabi, Mohammad Zuhair al Siddiq, il principale sospettato e testimone chiave per l’assassinio dell’ex premier libanese Rafik Hariri. Il siriano al Siddiq è entrato negli Emirati Arabi usando “un passaporto falso fornito dai servizi segreti francesi”, secondo il suo avvocato Fahd al Sabhan. Incriminato in contumacia dalle autorità giudiziarie libanesi, al Siddiq era stato arrestato in Francia nel 2005 ma Parigi ne rifiutò l’estradizione in Libano sostenendo che avrebbe rischiato la pena di morte. Nel 2006, fu poi rilasciato continuando a vivere in Francia fino al 2008 quando si trasferì negli Emirati Arabi Uniti, dove è stato arrestato quest’anno. 

Era il 14 febbraio 2005 quando sul lungomare di Beirut l’esplosione di un’autobomba guidata da un kamikaze uccise l’allora premier Rafik Hariri e gli uomini della sua scorta. Il bilancio fu di 22 morti e un centinaio di feriti. L’attentato scatenò panico e forte preoccupazione tra la comunità internazionale, soprattutto per le conseguenze che avrebbe prodotto quell’evento. Le reazioni non tardarono ad arrivare e, nei giorni seguenti al funerale di Hariri, scattarono una serie di manifestazioni contro il governo siriano, ritenuto responsabile dell’assassinio del premier libanese. Ci furono grandi manifestazioni piene di giovani che protestavano contro la presenza militare siriana in Libano. Da una di queste giornate, quella del 14 marzo 2005, nacque la omonima “Coalizione del 14 Marzo”, mentre i siriani furono costretti a ritirarsi dal Paese dei Cedri.  

Nel settembre del 2007 il Consiglio di sicurezza dell’ONU ha istituito il Tribunale Speciale per il Libano, con il compito di giudicare i responsabili della morte del premier. Il primo responsabile della commissione d’inchiesta – il tedesco Detlev Mehlis – ha sostenuto di avere prove e testimonianze del coinvolgimento della Siria nell’attentato. Nell’agosto del 2005, Mehlis ha ordinato l’arresto dei vertici delle forze armate libanesi compromesse con Damasco. Le autorità di Beirut arrestarono otto persone: quattro generali filo-siriani responsabili dei servizi di sicurezza di Beirut, scarcerati poi nell’aprile scorso per mancanza di prove, e quattro  membri di un gruppo di militanti sunniti vicino alla Siria.

Il procuratore del Tsl, il canadese Daniel Bellemare, che ha sostituito Mehlis e che richiese la scarcerazione dei quattro generali, giorni fa ha spiegato al quotidiano panarabo al-Hayat che non si fermerà dinanzi a nulla pur di accertare le responsabilità della strage. Nel cosiddetto “attentato di San Valentino” ci sono ancora molti punti oscuri: alcune rivelazioni, ad esempio, sono arrivate il 23 maggio scorso dal settimanale tedesco Der Spiegel. Il periodico ha diffuso la notizia che la commissione d’inchiesta internazionale sta seguendo una traccia legata ad Hezbollah, la milizia sciita libanese, che subito dopo l’attentato venne additata come l’esecutore materiale dell’assassinio.

Secondo i documenti di cui sarebbe entrato in possesso lo Spiegel, gli inquirenti avrebbero individuato otto cellulari utilizzati dal commando responsabile dell’attentato, comprati tutti lo stesso giorno nel nord del Libano, attivati settimane prima dell’omicidio e mai più utilizzati. I recapiti telefonici partiti dai cellulari apparterrebbero a membri dell’Hezbollah. I dirigenti del gruppo hanno negato ogni accusa, ribattendo che l’obiettivo del Tribunale era di condizionare la campagna elettorale del 7 giugno scorso.
A detta di Hezbollah, i quattro generali arrestati e poi rilasciati sarebbero dei “detenuti politici”, finiti in galera per volere della maggioranza antisiriana guidata dal figlio di Rafik, Saad Hariri. Con il rilascio dei quattro generali, che avrebbero dovuto rappresentare l’atto di accusa determinante contro la Siria, crolla l’impianto accusatorio del processo, provocando anche una lacerazione nel sistema giudiziario libanese.

Hezbollah, che ha festeggiato la notizia della scarcerazione dei generali, continua ad attaccare il Tribunale e la magistratura libanese: il Tsl, secondo i miliziani, potrebbe essere stato usato contro la sovranità nazionale libanese, per colpire – attraverso processi più o meno sommari – la classe dirigente pro-Damasco e gli ambienti politici attivi in Libano prima del ritiro siriano.

Ci sono poi altre piste tutte da verificare e destinate ad alzare un polverone sulle indagini. Una è quella seguita dal giornalista tedesco Jürgen Cain Külbel, un ex investigatore della Germania Est, oggi collaboratore del “Voltaire Network”; nel 2006, Kulbel pubblica una contestata contro-inchiesta sull’omicidio, presentata al pubblico arabo nel corso di una conferenza tenuta a Damasco, suscitando non pochi dubbi e perplessità. Attacca il ruolo politico della Commissione investigativa dell’ONU, difende i siriani e spiega che fin dall’inizio qualcuno ha voluto deviare le indagini. Chi sia questo qualcuno si scopre molto presto. Külbel si riferisce ad Israele. Il giornalista in seguito è stato arrestato per aver violato una decisione del Tribunale.

Oppure lo scoop del reporter americano Seymour Hersh, divenuto celebre grazie ai suoi articoli sul massacro di My Lai in Vietnam nel 1969. Hersh viene considerato un giornalista investigativo influente ma non è nuovo ad errori e svarioni, come gli accadde nel 1981, quando fu costretto a smentire le accuse che aveva avanzato contro l’ex ambasciatore americano in Cile – indicato come un collaborazionista di Pinochet. Sull’omicidio Hariri, Hersh ha diffuso una tesi altrettanto discutibile: negli anni scorsi, sotto l’amministrazione Bush, nel mondo avrebbe agito un gruppo sottocopertura delle operazioni speciali americane, utilizzato come una sorta di “squadrone della morte” per eliminare personalità politiche “scomode” in varie parti del mondo. Ipotesi che non trovano appigli reali e concreti nella realtà.

Pochi giorni fa, la Siria ha presentato alle Nazioni Unite una protesta formale contro l’investigatore dell’ONU Detlev Mehlis e il suo collaboratore Gerard Lehmann, accusandoli di aver tentato di coinvolgere ad ogni costo Damasco nell’attentato ad Hariri, fabbricando, falsificando e creando informazioni politiche distorte per incastrare i vertici siriani. Il governo di Damasco chiede che sia avviata un’inchiesta ufficiale sulla vicenda. L’inchiesta sul caso Hariri, insomma, è ancora in alto mare. E se potrebbe essere utile e necessario allargare il campo di azione delle indagini, cercando le responsabilità in ogni direzione, non bisogna abbandonare la pista più accreditata: quella dell’asse Siria-Iran-Hezbollah.