Il liberalismo americano è figlio del cristianesimo
10 Luglio 2011
In un articolo pubblicato su Il Riformista del 25 maggio 2011, Luciano Pellicani replica ad un articolo di Giuseppe Bedeschi che recensiva il suo libro: “Dalla Città sacra alla città secolare” (Rubbettino, 2011). Pellicani contesta l’interpretazione di Bedeschi, in forza della quale: “La storia ci dice che la prima grande teoria, espressa nel mondo moderno, dei diritti inviolabili e imprescrittibili della persona, è stata elaborata da un pensatore profondamente cristiano, John Locke”, e, nel contempo, ribadisce la sua tesi che liberalismo (come teoria delle istituzioni politiche) e cristianesimo sarebbero inconciliabili, concludendo che il riferimento alle radici cristiane del costituzionalismo americano sarebbe il frutto di un “grande fraintendimento”. È inutile dire che gli argomenti utilizzati da Pellicani sono forti e denotano una cultura e una conoscenza invidiabili, sebbene rilevino anche una mirata selezione delle fonti.
Altre fonti, non meno autorevoli, mostrano come sia impossibile spiegare la genesi e lo sviluppo della teoria politica liberale e della nazione americana al di fuori della tradizione cristiana, riducendo quella vicenda costituzionale al trionfo di un individualismo e di un volontarismo interpretati in senso ateistico.
Con particolare riferimento alla vicenda storica americana, è stato il gesuita e padre conciliare Murray a sostenere che, per un’inspiegabile ironia della storia, la tradizionale dottrina cattolica del diritto naturale è andata via via decadendo nelle nazioni europee, proprio mentre essa assumeva particolare vigore nella neonata Repubblica d’oltre Atlantico. È questa la regione per cui, anche per Tocqueville, la partecipazione dei cattolici all’esperimento americano è stata sin da subito ampia, libera e senza riserve. I contenuti di quell’esperimento, tanto sotto il profilo etico, quanto sotto il profilo dei principi politici, affondavano le proprie radici nella dottrina del diritto naturale: “we hold these truths”.
Di fronte ad interpretazioni così differenti, autorevoli e legittime di uno stesso fenomeno, invito Pellicani a porsi una domanda: in che modo secondo lui gli americani della prima generazione, quella dei Padri fondatori, interpretarono le proposizioni implicite ed esplicite presenti nella Dichiarazione d’indipendenza? Si leggano, ad esempio, i discorsi di George Washington, le lettere scritte da John Adams, Noah Webster, Samuel Adams e tantissimi altri, sui principi fondamentali sui quali poggia la Nazione. Si leggano, inoltre, la Dichiarazione dei diritti dello Stato della Virginia, le Costituzioni dei nuovi Commonwealths e degli Stati di Pennsylvania, Massachusetts, New Hampshire e altri ancora.
La lettura di questi testi mostra come, su molti temi, ritroviamo la tradizione biblica, gli insegnamenti degli antichi greci e romani sul carattere e sulla virtù, nonché la visione alto-medioevale della libertà e della coscienza, come elementi che affondano le proprie radici nella nozione tutta cristiana di persona umana.
Eh già! La persona umana. Pellicani giunge persino a negare che al centro della tradizione cristiana ci sia la nozione di “persona”; basti dire che “Il Compendio” di dottrina sociale della Chiesa lo innalza a principio primo. Credo che la ragione del fraintendimento – questo si di Pellicani – risieda tutto qui. Secondo la tradizione del liberalismo di ispirazione cattolica: Rosmini, Manzoni, Sturzo e altri, richiamata di recente da Benedetto XVI nella lettera inviata a Giorgio Napolitano il 17 marzo 2011, il liberalismo è tale in quanto elegge la persona come fine della vita associata. Si tratta di uno straordinario punto di incontro tra il liberalismo classico e la tradizione liberale di matrice cattolica. Un punto d’incontro sintetizzato dal seguente brano dell’economista tedesco Wilhelm Röpke: “il liberalismo non è […] nella sua essenza abbandono del Cristianesimo, bensì il suo legittimo figlio spirituale”. Che poi talvolta i figli e nipoti non siano riconoscenti è tutto un altro discorso.
*Adjunct Fellow American Enterprise Institute
Tratto da Avvenire dell’8 giugno 2011