Il libero mercato può essere l’antidoto all’immigrazione di massa
09 Aprile 2011
La Nigeria è il più popoloso e complicato nodo delle migrazioni trans-sahariane, con 154 milioni di abitanti. E’ qui che si dovrebbe concentrare il controllo del traffico di carne umana. E’ soprattutto in Nigeria che dovrebbe attivarsi l’unico sistema di prevenzione umanitaria, quello che prevede libero mercato, investimenti paritari e non predatori, guerra a burocrazia e partitocrazia dei governi locali, riduzione del potere militare, con conseguente sviluppo dell’economia a prescindere dai sussidi internazionali, i quali al contrario deprimono le economie locali, come dimostrano numerose statistiche.
I principali terminali dei flussi migratori si trovano a Ceuta e Melilla (exclave a sovranità spagnola situate in Marocco) e in Libia e Tunisia per Italia. Attraverso Spagna e Italia i flussi vanno poi verso il resto dell’Europa, mentre dalla Grecia transita l’emigrazione dall’Oriente. Un’altra rotta parte dall’Africa occidentale (tra Ghana a Senegal) e attraverso Burkina Faso e Mali finisce in Algeria a Orano, da dove i traghettatori portano i migranti direttamente in Andalusia o le Baleari (dall’Algeria si è anche avuto un naufragio verso la Sardegna, con 70 morti).
Secondo Fortress Europe, le vittime dell’onda migratoria alla frontiera sud europea sono 12.059, inclusi 4.255 dispersi. Nel Canale di Sicilia le vittime sono 2.514, tra cui 1.549 dispersi.
L’organismo europeo che si occupa della gestione delle frontiere comuni è l’Agenzia Frontex, ubicata a Varsavia, la quale in questi giorni si è dichiarata incompetente nel risolvere il contenzioso Italia-Francia sulla circolazione degli immigrati tunisini sbarcati a Lampedusa.
Background recente
Le rivolte arabe hanno segnato il fallimento della politica di partnership con i paesi del Maghreb e del Vicino Oriente, culminato nel decesso politico della Unione per il Mediterraneo (UpM) promossa per iniziativa della Francia.
Già nel 2008 la nascita della UpM fu gravata dall’adesione come “osservatore” della Libia, dallo scetticismo generale, dall’ostilità tedesca e dall’avversione della Turchia, bloccata nel tentativo di adesione all’Europa proprio dalla Francia, e successivamente intenta a ricostruire una propria area di influenza geopolitica autonoma, tra Medio Oriente e le province turcofone della Cina.
La Francia ha un percorso analogo alla Turchia: recentemente ha copernizzato l’esercito europeo mandandolo alla ghigliottina, grazie alla formazione di una force de frappe comune col Regno Unito.
Gli USA in Africa mantengono il loro piano di contenimento dell’espansione cinese, attuato anche con una presenza militare tramite il Comando strategico AFRICOM, cui aderiscono 53 nazioni del continente.
Il piano geopolitico francese si è mosso su più piani: Sarkozy di recente ha operato in maniera multilaterale e “obamiana” in Costa D’Avorio, dove completando un regime change pilotato, imponendo Alassane Ouattara al posto del presidente Gbagbo.
In Libia la Francia ha condotto la prima missione comune con gli inglesi, operando su un piano più interventista. In Algeria Parigi agisce in maniera occulta ma efficace, visto che l’Algeria è la nazione più esplosiva tra quelle toccate dalle rivolte di inizio 2011. Una crisi in Algeria significherebbe un’onda di esodo verso la Francia in grado di devastarne l’economia in modo decisivo. E’ questo il punto di attenzione centrale per Sarkozy.
Il background storico
Il progetto geopolitico della Unione per il Mediterraneo, ora affossato dalle rivolte, era legato a una politica europea vecchia di decenni, impostata da politici come Mitterrand e Prodi. Si tratta del processo di integrazione multiculturale noto sotto il nome di Eurabia, termine utilizzato dalla saggista Bat Ye’or in un testo edito da Lindau nel 2006.
Negli anni ’70 l’Europa cercava -attraverso l’apertura di un corridoio ai Paesi arabi- la Terza via tra Patto Atlantico e il Comintern guidato dall’Unione Sovietica. Era una strada quasi obbligata per un soggetto che voleva trovare spazio nel solco dell’autonomia gollista. Del resto, a est non si poteva né si voleva toccare l’area sovietica, mentre più a sud era impossibile riaprire un discorso con le nazioni africane, appena riconsegnate alla libertà.
L’operazione fu concordata a tavolino, secondo Bat Ye’Or, prevedendo libero accesso degli europei al petrolio arabo. L’Europa infatti usciva dallo choc petrolifero successivo alla guerra del Kippur contro Israele del 1973. Per ritorsione l’Opec chiuse i rubinetti del petrolio: in Italia i cinema chiudevano prima, la domenica non si poteva andare in auto, i negozi fallivano. Una crisi che segnò la fine del boom economico.
Si aprì allora il tavolo di trattative del “Dialogo Euro-arabo”. Gli arabi trovavano conveniente imporre all’Europa un’adesione soft alla loro azione anti-israeliana. Non chiedevano l’industrializzazione, considerata un vettore pericoloso di modernità occidentale (Gheddafi infatti comprò delle quote della Fiat, ma non volle che la Fiat aprisse una fabbrica di componenti in Libia). Chiedevano invece che si aprisse un corridoio per il surplus di forza-lavoro all’interno dell’Europa.
Posero delle condizioni, a partire dal “multiculturalismo”. Il multiculturalismo in realtà era ciò che è avvenuto nelle banlieues parigine o belghe: si dovevano creare dei “ghetti” in cui non ci fosse integrazione culturale. Era una richiesta logica e giusta, dal punto di vista islamico, ma fu una risposta tragicamente scomposta e sbagliata, da parte europea, come si è accorto Nicolas Sarkozy quando ha dovuto affrontare la rivolta dei casseurs delle periferie, figli degli immigrati. Il multiculturalismo per gli immigrati implicava una semplice coesistenza, ma ciò ha portato a una balcanizzazione delle grandi aree metropolitane. E’ stato un errore anche da parte araba, alla fine.
L’Europa aprì le porte all’emigrazione anche per motivi interni. Il primo di questi consisteva nella credenza di poter risolvere l’alto livello di conflittualità operaia degli anni ’70, immettendo nel mercato mano d’opera non organizzata. C’era inoltre l’idea di poter continuare a gestire un modello sociale basato sul dualismo capitale-lavoro, che era già in crisi. I socialisti speravano in un ricambio che permettesse la sopravvivenza di una classe proletaria all’interno della Fortezza Europa. Ciò non soltanto per mere finalità ideali, per sbagliate che fossero, ma anche per mantenere la loro base sociale di elettori, che stava riducendosi a dosi omeopatiche, come dimostrano i trend elettorali europei degli ultimi decenni.
Il nodo del corridoio migratorio euro-arabo si è ingigantito nel corso degli ultimi 15 anni, col processo di globalizzazione successivo alla caduta del Muro. L’Europa e la Germania hanno infatti delocalizzato a Mosca o a Pechino, e così l’emigrazione non ha più trovato lavoro nelle grandi fabbriche.
Più recentemente si è cercato di ovviare al processo di crisi, delocalizzando direttamente nel Maghreb. In questi mesi per esempio la Renault tratta di impiantare una fabbrica in Algeria, ma è intervenuta la crisi internazionale, insieme con le iniziative cinesi nel campo delle infrastrutture in Africa, tradizionale banco di affari per le aziende europee.
Quando la crisi economica ha toccato direttamente il Maghreb, si è arrivati al punto critico. Visto che oggi l’Europa non ha posti di lavoro da coprire con gli immigrati, non resta che realizzare la modernizzazione e lo sviluppo del Nord Africa, in aree finora soffocate dagli interessi della burocrazia locale e delle caste economiche internazionali.
Nel Medio Evo, il sistema commerciale mediterraneo funzionava con vantaggi reciproci, grazie a una forma di libero scambio favorita dall’assenza di grandi entità statali. Oggi invece l’area mediterranea si deve confrontare con una “Scontro di civiltà” trasformato in una guerra permanente tra le diverse macroeconomie, il che per noi significa subire la concorrenza del Far East di Cina e India, e lo scivolamento della Germania verso la Russia. La tendenza alla ricolonizzazione economica dell’Africa non è la soluzione ma è parte del problema. Occorre invece che il cambio dei regimi favorisca la nascita di economie efficienti perché libere, solo modo per fermare quella che i lepenisti francesi definiscono l’invasione barbarica finale.