Il Lodo Alfano fra bizantinismi del Quirinale e furbizie finiane
27 Ottobre 2010
Dopo mesi di convenevoli e salamelecchi la partita del Lodo Alfano sembra essere entrata nel vivo. E a farla entrare del vivo è stata la sortita (abbastanza irrituale) del Presidente Napolitano, il quale ha sollevato il dubbio che il testo della Commissione Affari costituzionali del Senato, nel prevedere che anche il Presidente della Repubblica sia sottoposto ad autorizzazione parlamentare in caso di avvio di un processo penale nei suoi confronti, leda il ruolo istituzionale del Presidente della Repubblica sottoponendolo in modo improprio al controllo del Parlamento medesimo.
Dal punto di vista strettamente giuridico l’obiezione presidenziale non ci sembra fondata. Già oggi la Costituzione prevede, all’articolo 90, che il Parlamento in seduta comune possa deliberare la messa in stato di accusa del Capo dello Stato per alto tradimento ed attentato alla Costituzione. E nessuno ha mai pensato che tale previsione potesse configurare un attentato all’autonomia del Presidente. Ma è stato obiettato, l’articolo 90 richiede la maggioranza assoluta mentre il lodo Alfano costituzionale si accontenta della maggioranza semplice. Ma anche questo argomento non convince. Non convince in primo luogo perché diverse sono le due fattispecie: nel caso dell’articolo 90 è il Parlamento stesso ad assumere l’iniziativa per mettere in stato di accusa per reati istituzionali il Presidente: è quindi naturale che la Costituzione richieda la massima consapevolezza nell’assunzione della decisione. Nel caso del lodo Alfano viceversa il Parlamento autorizza la prosecuzione di un procedimento penale ordinario avviato dall’autorità giudiziaria (procedimenti per i quali oggi non è previsto alcuno scudo). E in ogni caso, a ben vedere, la previsione della maggioranza assoluta non modifica sostanzialmente la logica delle deliberazioni prese a maggioranza semplice. In entrambi i casi, a decidere è la maggioranza (la metà più uno) solo che nel caso della maggioranza assoluta si richiede che tale maggioranza sia verificata in riferimento a tutti gli aventi diritto e non ai soli votanti. Con la regola della maggioranza assoluta si conferma il principio della decisione a maggioranza ma si richiede un surplus di consapevolezza (la maggioranza deve partecipare fisicamente al voto). Quando viceversa la Costituzione ha voluto sottrarre una decisione alla regola maggioritaria ha richiesto la maggioranza qualificata (ad esempio 2/3) con la quale si rende necessaria una convergenza almeno di una parte dell’opposizione.
Semmai è da dire che la previsione di un’autorizzazione parlamentare non rappresenta forse un vizio giuridico – costituzionale, ma a noi pare piuttosto uno strafalcione politico. Se, infatti, l’obiettivo della norma è (come ci pare debba essere) la sterilizzazione del conflitto fra politica e giustizia che dal 1994 avvelena il sistema, l’aver previsto che sia il Parlamento a dover decidere se concedere o negare l’autorizzazione a procedere contro il Presidente del Consiglio o contro il Presidente della Repubblica rischia di fallire clamorosamente l’obiettivo. Il rischio è infatti che anche dopo l’approvazione della riforma vi sia un uso improprio dell’azione penale nei confronti delle alte cariche dello Stato, motivato solo da logiche politiche o da inconfessabili desideri di notorietà di alcuni magistrati. Il fatto che il Parlamento possa concedere o meno l’autorizzazione a procedere rischia anzi di incoraggiare l’esercizio temerario delle azioni penali nei confronti delle alte cariche dello Stato. Venuto meno il disincentivo rappresentato dal fallimento in giudizio delle tesi accusatorie cosa potrebbe trattenere i magistrati più disinvolti dalla tentazione di guadagnare qualche settimana di notorietà a buon mercato rivolgendo le accuse più fantasiose al Capo dello Stato e al Capo del governo?
Ma se il problema fosse solo quello dell’autorizzazione parlamentare si tratterebbe di un problema da poco: basterebbe eliminare tale previsione! O al limite volendo seguire i bizantinismi cortigiani dei giuristi di Palazzo basterebbe prevedere che l’autorizzazione parlamentare debba essere approvata a maggioranza assoluta. E così almeno i patemi d’animo quirinalizi sarebbero risolti.
Ma il problema si è dannatamente complicato perché, approfittando dell’esternazione del Quirinale, con la furbizia e la rapidità di una volpe, il Presidente della Camera ha lanciato sul campo un macigno assai più ingombrante: quello della (cosiddetta) reiterabilità (che con la questione posta da Napolitano non centra nulla). Ovvero la possibilità che lo scudo per le alte cariche valga anche per mandati (uguali o diversi) successivi al primo. Ancor più che con riferimento al tema dell’autorizzazione parlamentare, le obiezioni al principio della reiterabilità appaiono del tutto inconsistenti. Se infatti lo scudo per le alte cariche è giustificato dalla necessità istituzionale di garantire la serenità nell’esercizio delle funzioni di governo o di guida di un Paese, per quale misteriosa ragione tale esigenza viene meno nel caso in cui un Presidente del Consiglio uscente venga confermato in tale incarico o salga al Quirinale? Se è vero che lo scudo giudiziario protegge non la persona ma la funzione per quale motivo tale necessità non è più valida nel caso in cui la stessa persona eserciti il mandato istituzionale (protetto) per due volte consecutivamente? L’obiezione sul punto si basa sul fatto che la stessa legge Alfano prevedeva che l’improcedibilità operasse per una sola volta. Ma ci si dimentica che la legge Alfano fu scritta sotto dettatura della Corte Costituzionale la quale nella sentenza relativa al lodo Schifani aveva, nel fissare i paletti per la legittimità di un intervento in materia da parte di una legge ordinaria, richiesto fra l’altro la non reiterabilità. Al di là del fatto che la stessa Corte nella successiva sentenza ha smentito se stessa bocciando la legge Alfano, la non reiterabilità fu pensata appunto con l’obiettivo di rendere legittimo un intervento con legge ordinaria (che presumibilmente doveva essere seguito da una legge costituzionale). E del resto introdurre la regola della non reiterabilità finirebbe, ancora una volta, per alimentare il conflitto fra politica e giustizia. Qualunque sostituto procuratore d’Italia, d’intesa con qualunque GIP d’Italia, potrebbe intervenire in modo devastante nell’arena politica per bloccare la candidatura a premier o a Presidente della Repubblica di qualunque leader politico (o per favorire l’ascesa di un suo concorrente interno), in barba di ogni principio di sovranità democratica.
Ma se tutto ciò è vero, vuol dire che le reali ragioni dell’uscita del Presidente Fini (che ha, fra l’altro, smentito l’operato dei senatori di Futuro e libertà presenti in I Commissione del Senato) sono di mera tattica politica. Vuol dire che evidentemente Fini ha deciso di accelerare la crisi dell’attuale maggioranza ritenendo che per Berlusconi rappresenti una strada impervia aprire la crisi ed andare ad elezioni sul tema della giustizia. Più che la cultura democratica della legalità, l’obiettivo reale dell’uscita finiana sembra essere il governo tecnico (ovvero tutti uniti contro Berlusconi per rifare in senso proporzionale la legge elettorale). Ma se così fosse, ci troveremmo di fronte ad una riedizione della più sapiente tattica dorotea. Sapienza tattica rispettabilissima, ma che ha ben poco a che fare con gli ideali futuristi e liberali del quale egli si professa (novello) cantore.