Il manifesto bioetico per il Partito Democratico non convince

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Il manifesto bioetico per il Partito Democratico non convince

27 Settembre 2007

Un gruppo di filosofi ha pubblicato su Europa
del 21 settembre un «Manifesto per la Bioetica». Partendo dalla
convinzione che in Italia i dibattiti bioetici siano affrontati
seguendo un rigido schema ideologico, che contrappone sterilmente
“cattolici e laici”, si avanza una proposta di metodo: richiamandosi
all’autorevole pensiero di John Rawls, si auspica che si adotti il
metodo della ragione pubblica e del consenso per intersezione per
costruire una cultura bioetica nuova, che possa anche essere adottata
nel programma politico del nascente Partito Democratico, i cui
possibili futuri dirigenti non hanno fino ad ora dedicato molta
attenzione ai temi della vita. Che si tratti di buone intenzioni, non
c’è dubbio; se a tali buone intenzioni possono seguire davvero fatti
congruenti è però un’altra questione. Per quel che mi concerne, sono
piuttosto scettico.

Non c’è dubbio che il consenso per intersezione, al quale fanno
appello i firmatari del Manifesto, sia un buon metodo per elaborare
decisioni condivise: chi lo utilizza rinuncia a ogni presupposto
dogmatico e argomenta partendo da premesse ragionevolmente
condivisibili da tutti; non vuole far prevalere né, meno che mai,
imporre agli altri la propria visione sull’assetto ottimale del mondo,
ma semplicemente si impegna perché a tutti siano riconosciute pari
dignità e libertà e perché tutti portino la responsabilità delle
proprie scelte. Tutto bene? A livello delle intenzioni sì, a livello
delle cose purtroppo no. I firmatari del Manifesto infatti eludono la
questione fondamentale: se il metodo che propongono, oltre che
adattarsi alle questioni politiche, si possa anche adattare alle
questioni bioetiche (in altre parole, se la bioetica possa interamente
ridursi alla “biopolitica”). Sembra che essi non facciano distinzione
tra i due ordini; eppure questa distinzione è assolutamente essenziale.

Se si vuole la prova di quanto detto, si rifletta sui diritti
fondamentali di rilievo bioetico, che, in base al metodo or ora
descritto, vedono l’esplicita e convergente adesione dei firmatari
(cattolici e laici) del Manifesto. Questa convergenza – a onta di quel
che potrebbe pensarne il buon Rawls – è resa possibile non tanto dal
metodo dell’”intersezione” quanto dal metodo dell’”elusione”. Finché si
insiste, parlando di bioetica, sull’ovvio e si evitano le questioni
cruciali e scottanti della disciplina, l’accordo si realizza
facilmente. Ma quanto può durare un accordo basato su palesi reticenze?
Consideriamo
il primo principio su cui i firmatari del Manifesto convergono: il
«diritto all’integrità». Esso consiste «nel rispetto dell’integrità
personale di ciascun individuo nell’arco della sua vita», nel «non
violarne l’integrità fisica e psicologica e non minare la fondamentale
eguaglianza tra gli individui». Non si potrebbe dire meglio di così, ma
restano aperte diverse ben note questioni, sulle quali – sono convinto
– le opinioni dei firmatari del Manifesto divergono radicalmente.

Ad esempio: il «diritto all’integrità» si accompagna o no a un
«dovere di integrità»? Più semplicemente: è lecito o no a chi
liberamente lo desideri vendere un organo del proprio corpo, violandone
l’integrità? E ancora: alla vita prenatale si applica o no il «diritto
all’integrità»? Legalizzando l’aborto, non violiamo forse il diritto
all’integrità del nascituro? Sono sicuro che i firmatari del Manifesto
non ignorano che sull’aborto e su molte questioni ad esso riconnesse
(l’aborto selettivo, l’aborto eugenetico, l’aborto a nascita parziale,
l’aborto come mezzo di limitazione delle nascite, ecc.) la discussione
bioetica è estremamente accesa, ma non credo che su questi temi nemmeno
l’appello alla ragione pubblica di Rawls possa aiutarli ad andare
lontano.
Gli altri due principi portati dai firmatari del Manifesto
come esempio di un consenso per intersezione sono quelli del %C2