Il Manifesto della Marcegaglia è l’ultima cosa che serve alla nostra economia
27 Settembre 2011
La tesi di Ernesto Galli della Loggia che invita Berlusconi a dimettersi, sostenendo che tutti o quasi i parlamentari del PDL lo chiedono, è singolare in quanto non si capisce da quale fonte egli possa ricavare questa affermazione, dato che egli non è certo in grado di effettuare interviste a tappeto fra i senatori e deputati di questo partito, né risulta che frequenti la sede del PDL di Via dell’Umiltà a Roma. D’altra parte non pare che il PDL abbia il desiderio di suicidarsi con mosse inconsulte e che la Lega Nord abbia deciso di porre fine alla sua esistenza, buttandosi nelle acque del Po.
Invero, il fatto che sia stata predisposta una cabina di regia, per la gestione collegiale della politica economica indica che la maggioranza di governo intende operare per le riforme e la crescita superando i personalismi con un dialogo con tutti quelli che condividono tali obbiettivi, secondo una linea di economia di mercato orientata allo sviluppo coerente con le prescrizioni europee. E’ pertanto sbagliata nell’obbiettivo la sfida di Emma Marcegaglia con il suo Manifesto della Confindustria, che cela a malapena le ambizioni politiche di questo presidente uscente e quelle di altri personaggi del mondo economico e finanziario candidati al governo tecnico. Allo stato dei fatti, tale formula di governo non ha una base politica perché l’Udc e la Lega Nord, nel caso di crisi interna dell’attuale maggioranza, per altro non in vista, preferirebbero le elezioni anticipate. Non si capisce per quale motivo questa maggioranza di governo dovrebbe auto dissolversi, prima della scadenza delle elezioni, anziché portare avanti il proprio programma di risanamento sino alla fine della legislatura, onde presentarsi all’elettorato, nel 2013, con il bilancio in tendenziale pareggio.
Abbandonare la nave a questo punto o fra un anno, mentre ancora il porto non è visibile a occhio nudo sarebbe una mezza diserzione e comporterebbe, perciò, un giudizio negativo degli elettori. In ogni caso, sia Silvio Berlusconi che il PDL e la Lega Nord non sono nemici delle imprese, degli imprenditori, grandi, piccoli. E quindi tutte le richieste che siano avanzate dalla Confindustria che servano allo sviluppo delle imprese in regime di concorrenza, con una finanza seria, saranno accolte dalla coalizione di governo con la massima apertura. Non c’è alcun conflitto di interessi fra questa coalizione di centro destra la cui politica economica è ora affidata a una cabina di regia, ispirata a collaborazione, e il mondo imprenditoriale quando esso non chieda favori o non faccia proposte tributarie stravaganti, come quelle che sono state annunciate.
Però mi permetto di dire che il nome “Manifesto” che Emma Marcegaglia ha scelto per il programma confindustriale non è un buono strumento di marketing, per propugnare una economia di concorrenza, con una economia pubblica a ciò conforme. Infatti questo Manifesto evoca il Manifesto di Marx o, più terra terra, fa pensare al titolo del quotidiano della sinistra al caviale italiana. E comunque il termine “Manifesto” ha in sé qualcosa di agitatorio, di sessantottino. Sarebbe bene che la Marcegaglia se ne liberasse. Ma, venendo alla sostanza, se la Confindustria è disposta a battersi per l’aumento dell’età di pensione, con innalzamento immediato degli scalini per le pensioni di anzianità ed altre misure, darà in tal modo un autorevole supporto alle riforme che sono state da tempo studiate e proposte dal senatore Cazzola del PDL. Conviene però osservare che l’aumento dell’età per andare in pensione comporta anche che i lavoratori in questione siano efficienti. E quindi comporterebbe che la Confindustria fosse paladina dell’articolo 8 del recente decreto finanziario, che consente alle parti sociali di concordare interpretazioni dell’articolo 8 dello statuto dei lavoratori, riguardanti il licenziamento per giusta causa o fondato motivo: ad esempio in relazione a ripetuti assenteismi di lunedì mattino o venerdì o per i turni notturni. Invece la Confindustria ha appena firmato un accordo con i maggiori sindacati nazionali per sterilizzare l’articolo 8 in questione. Ciò contraddice la sua linea relativa alla riforma delle pensioni.
Non sembra, poi, condivisibile la proposta della Confindustria di una mini imposta patrimoniale, che dovrebbe essere pagata dagli abbienti con un aliquota dello 1,5 per mille. Secondo la Banca di Italia le famiglie italiane posseggono beni patrimoniali per 9 mila miliardi, da cui si debbono detrarre circa 700 miliardi oneri finanziari. La ricchezza netta comunque sarebbe di poco inferiore agli 8.400 miliardi. E sempre secondo tale fonte il 10% più ricco possiede il 45% dio tale patrimonio, ossia 3700 miliardi. Posto che il nuovo tributo patrimoniale potesse realmente colpire questi imponibili teorici, il gettito sarebbe di 5,5 miliardi. Non è una grande cifra, di fronte a una manovra di finanza pubblica di 47 miliardi, quale quella appena varata. Si tratta, comunque, di 0,35 punti di Pil, una cifra non disprezzabile. Ma in Italia per le dichiarazioni dei redditi IRPEF ci sono solo 34 mila persone che hanno più di 300 mila euro annui. E di queste solo 4 mila dichiarano più di 500 mila euro annui. Ammesso che la media per i 30 mila contribuenti con redditi fra i 300 e i 500 mila euro sia di 400 mila euro per ciascuno, il loro reddito sarebbe di 12 miliardi. E supposto che il 60% di tale reddito derivi da patrimonio, il loro provento patrimoniale sarebbe di circa 7 miliardi.
Ammesso che questi patrimoni rendano il 4 per cento, il patrimonio globale di questi contribuenti sarebbe di 25 volte tanto, vale a dire di 175 miliardi. Consideriamo ora i 4 mila contribuenti che dichiarano più di 500 mila euro. Supposto che il loro reddito medio sia di un milione per ciascuno e che quello di natura patrimoniale sia l’80% , esso sarebbe di 800 mila euro per contribuente. Moltiplicato per 4 mila,, ciò dà luogo a 3,2 miliardi di proventi patrimoniali. Supposto che proventi siano il 4% del valore dei patrimoni netti da cui derivano, bisogna moltiplicare 3,2 per 25. si ottengono 80 miliardi. In totale i patrimoni ufficiali dei più ricchi in Italia sarebbero 250 miliardi e non già 3700. Lo 1,5 per mille di 250 miliardi è pari a 375 milioni. Una presa in giro. Il punto è che se i ricchi non pagano l’imposta sul reddito, in che modo potrebbero essere costretti a pagare quella sui loro patrimoni, in gran parte imboscati all’estero e in società di cui è difficile accertare i titolari, dato che i catasti sono lacunosi e che gran parte delle rendite finanziari di rilevante dimensione sono riferite a soggetti convenzionali, come si possono individuare i patrimoni dei ricchi? Se invece che inventare nuove imposte, che si basano su illusioni finanziarie, si applicasse il redditometro di massa a tutti coloro che posseggono beni di lusso e si operasse una seria revisione dei dati catastali, senza ricorre a coefficienti automatici, si potrebbe recuperare molto più gettito, evitando di continuare ad aumentare le aliquote su chi già paga.
Né mi convince la regola che Emma Marcegaglia vorrebbe introdurre per cui ogni operazione superiore ai 500 euro andrebbe pagata con bancomat, carta di credito o assegni, mai con contante. Anche questo è uno strumento illusorio e vessatorio. Infatti i pagamenti in nero possono continuare , per somme superiori ai 500 anche se sono vietati. Non c’è bisogno di una misura di questi genere che serve solo per accrescere l’uso di carte di credito, bancomat e assegni su cui le banche percepiscono commissioni. Il fisco ha accesso ai conti bancari dei contribuenti e se vede rilevanti versamenti e prelievi di contanti può immaginare che ciò implichi operazioni in nero. Ma quando i flussi in nero non danno luogo a versamenti bancari, questi metodi non funzionano. Occorrono, invece, controlli spot degli esercizi commerciali e dei professionisti ed artigiani per invidiare se utilizzano o meno le fatture e gli scontrini, controlli dei magazzini delle imprese, verifiche con redditometro della congruenza fra il tenore di vita e le dichiarazioni dei redditi. Il tutto in regime di contenimento delle spese, per poter chiedere al contribuente una imposta che sia un corrispettivo ragionevole di servizi pubblici. Le grida fiscali, la demagogia tributaria stanno bene in un “Manifesto” giustizialista, non si addicono a chi vorrebbe farsi portatore dei valori di cui ha bisogno la classe imprenditoriale, in una sana economia di mercato.