Il manifesto riformista di Morando e Tonini è confuso e privo di spunti
15 Ottobre 2012
Sono tanti i “manifesti” che si pubblicano di questi tempi. E’ appena uscito il “Manifesto capitalista” di Luigi Zingales, economista italiano che insegna a Chicago. Ora compare negli scaffali delle librerie “L’Italia dei democratici. Idee per un manifesto riformista” di Enrico Morando e Giorgio Tonini (Marsilio Editori, Venezia 2012).
Quando si scrivono molti manifesti vuol dire che in giro c’è un po’ di confusione, e parecchi cercano di fornire il loro contributo per fare chiarezza. Non è detto, però, che ci riescano. Nessuno dei due volumi che ho appena citato, a mio avviso, contiene spunti decisivi al riguardo e, alla fine, la confusione resta tale.
Enrico Morando e Giorgio Tonini sono due senatori del Partito Democratico. Il primo, già presidente della Commissione bilancio, ha scritto nel 2008 il programma elettorale del PD. Il secondo, che è anche giornalista professionista, è capogruppo del suo partito nella Commissione esteri.
Diciamo, per motivi di chiarezza, che Morando e Tonini – soprattutto il primo – sono gli eredi della corrente “migliorista” del vecchio PCI, quella che faceva capo a Giorgio Amendola e annoverava tra i suoi principali esponenti l’attuale Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano.
Ovvio che ai nostri giorni definirsi “miglioristi” non ha più senso, giacché il Partito Democratico si è in gran parte spostato sulle posizioni classiche del socialismo riformista, il cui padre nobile è stato Filippo Turati poi seguito, al termine del periodo fascista, da figure quali Giuseppe Saragat e Pietro Nenni.
Perché, allora, i due autori hanno sentito il bisogno di scrivere un “manifesto riformista” quando, nel PD, tutti o quasi dovrebbero essere proprio su questa lunghezza d’onda? Il motivo è spiegato nell’Introduzione, quando Morando e Tonini scrivono: “La grande recessione di questi anni ci ha insegnato che troppa disuguaglianza può causare anche il collasso dell’economia, deprimendo i consumi delle famiglie. Di qui l’importanza delle politiche pubbliche, che possono svolgere un grande ruolo nel ridurre le disuguaglianze”.
Dunque riflettori puntati sin dall’inizio sul tema della disuguaglianza, anche se gli autori del volume riconoscono con onestà che non è solo questo il problema da affrontare, giacché “essa nasce nel mercato e non può essere completamente eliminata senza uccidere il dinamismo economico e quindi la crescita”.
Se si escludono i partiti della sinistra estrema nessuno, oggi, sembra disposto a mettere in discussione il capitalismo quale sistema migliore per l’allocazione delle risorse. Si deve tuttavia notare che il riformismo socialista non può, per la sua stessa natura, disconoscere l’obiettivo di fondo di pervenire a un tipo di società in cui l’uguaglianza prevale su ogni altro fattore. Essendo nel frattempo cambiato in modo radicale lo scenario tanto italiano quanto mondiale, tale obiettivo viene per dire “alleggerito”. Ci si può accontentare della presenza di disuguaglianze che non siano esagerate, riducendo il divario di reddito tra coloro che stanno in alto e chi si colloca sui gradini più bassi della scala.
Il problema è che il sistema capitalistico ha nel suo DNA la concorrenza e la lotta, e tende a non considerare l’uguaglianza come il fattore primario di cui tenere conto. Morando e Tonini riconoscono, a tale proposito, che la bassa produttività del lavoro è uno degli elementi che più penalizzano l’azienda Italia. E anche la contrattazione sindacale centralizzata finisce per danneggiarla, poiché essa si trova in costante competizione con Paesi in cui c’è una ben maggiore flessibilità su entrambi i versanti.
Credo abbia ragione Giuseppe Bedeschi quando, commentando il libro sul “Corriere della Sera” del 13 ottobre, nota: “Se si esce dalle aziende e si guarda a settori fondamentali della nostra società, le cose non vanno meglio. Infatti nella pubblica amministrazione, nella scuola, nell’Università, nella magistratura, l’anzianità costituisce il requisito essenziale di progressione di carriera, mentre il merito e la produttività sono sostanzialmente ignorati. Ma se le cose stanno così, Morando e Tonini vorranno ammettere che il nostro Paese, se indubbiamente soffre di disuguaglianze molto gravi, soffre anche di un eccesso di egualitarismo che, frenando lo sviluppo economico, ha reso croniche le disuguaglianze, e anzi le ha aggravate”.
Non sembra però, leggendo il libro, che l’eccesso di egualitarismo venga realmente messo a fuoco dai due autori, forse perché non rientra nel bagaglio della loro cultura politica. E questo nel momento in cui il Partito Democratico si candida alla guida del Paese senza aver ancora presentato un programma di vasto respiro e concentrandosi, invece, sulla questione delle “primarie”.
Non che gli altri partiti stiano meglio, com’è a tutti noto. E tale malessere generale – per usare un eufemismo – è la vera forza del governo tecnico attualmente in carica. Governo al quale è così difficile trovare alternative plausibili proprio perché i partiti, PD incluso, sono stati finora incapaci di elaborare proposte in grado di convincere l’opinione pubblica.