Il Messico è al bivio: decollo economico o totale fallimento

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Il Messico è al bivio: decollo economico o totale fallimento

25 Marzo 2009

Hillary Clinton arriva in Messico: una visita, quella del Segretario di Stato, che anticipa di una settimana l’altro viaggio del Segretario alla Sicurezza Interna Janet Napolitano; e di tre quello dello stesso Obama del 16 e 17 aprile, il primo del nuovo Presidente in America Latina. È un pellegrinaggio che si spiega bene sia per l’importanza del vicino del Sud; sia per l’allarme che la stampa Usa sta lanciando sulla deriva del narcotraffico in Messico, con oltre 5600 omicidi nel corso del 2008, e almeno 200 città statunitensi in cui si registra ormai la presenza dei Cartelli. Perfino a Filadelfia ci sono stati casi di decapitazioni: indice sicuro della presenza di un tipo di delinquenza la cui ferocia estrema sembra quasi venire direttamente dagli antichi riti cruenti degli Aztechi.

Nel contempo, però, sull’orlo della bancarotta, il più raffinato campione di questa stessa stampa Usa, un giornale simbolo come il New York Times, a chi è che chiede aiuto, se non ai miliardi del magnate messicano Carlos Slim Helú? Ma anche le Big Three dell’industria automobilistica del Michigan, General Motors, Ford e Chrysler, starebbero pensando di traslocare i quartier generali a sud del Rio bravo, se davvero a Detroit fossero costrette a consegnare i libri in tribunale. E anche un milione di pensionati statunitensi negli ultimi anni ha a sua volta “delocalizzato” a Sud, per i prezzi più bassi. L’"invasione dei nonni", l’hanno ribattezzata i giornali messicani.   

Il Messico è la seconda economia dell’America Latina, la quarta delle Americhe, la dodicesima al mondo, la prima dell’America Latina come reddito pro capite, ed ha il 90% dell’export regolato da trattati di libero commercio. Le tre fonti di valuta principali restano però il petrolio, le rimesse e il narcotraffico: una primaria, una risultante dall’immigrazione, una illegale. E il narcotraffico, presumibilmente, con l’ultima crisi è passato al primo posto. Insomma, un Paese tra il decollo e il fallimento: contraddizione ben espressa d’altronde dall’ultima classifica dei miliardari Forbes. Che da una parte ha confermato nei piani alti il già citato Slim: sia pure non più al primo posto ma al terzo, e con un 41,67% di patrimonio di meno. Dall’altro ha inserito nella lista al numero 701, con 1,7 miliardi di dollari di patrimonio, un personaggio come il capo del Cartello di Sinaloa Joaquín Guzmán Loera: altrimenti noto come El Chapo, “il tappo”, o anche “il Signore delle Montagne”.

Già Samuel Huntington nel suo famoso saggio sullo “Scontro di civiltà” aveva appunto descritto il Messico come una di quelle realtà nazionali e statuali dilaniate tra il richiamo delle diverse aree culturali rispetto a cui si trovano a cavallo: insomma, diviso tra richiamo dell’identità latino-americano e voglia di essere ammesso nel salotto buono del Nord America; in modo simile a quanto la Turchia a sua volta è essere divisa tra richiamo dell’identità islamica e voglia di essere ammessa nel salotto buono dell’Unione Europea.  Sempre Huntington però nel successivo saggio Who Are We? The Challenges to America’s National Identity (in italiano "La nuova America. Le sfide della società multiculturale") avvertiva come proprio dal Messico potesse venire la minaccia più insidiosa per l’identità Usa: perché gli immigrati ispanici in genere, a differenza di altri immigrati del passato, restano legati alla lingua spagnola, che impedirebbe loro la fusione definitiva nel melting pot Usa; perché questa identità è alimentata dalla contiguità territoriale con il Messico; perché questa presenza e questa contiguità territoriale in tutto il Sud-Ovest Usa, dalla California al Texas, si ammanta addirittura di un sottofondo irredentista, avendo fatto parte quei territori del Messico prima della rivolta texana del 1835 e della guerra del 1848.

“Ricordati di Alamo!” è però uno slogan che può funzionare per entrambi gli opposti nazionalismi. E se nutrito è il cahiers de doléances degli Usa, non è che i messicani restino per conto proprio in silenzio. Sia il presidente Calderón, sia la stampa messicana a proposito del boom di omicidi hanno avuto buon gioco nel lanciare durissime controaccuse al lassismo delle leggi Usa sia in materia di consumo di droga che di vendita delle armi: per non parlare della corruzione, che imperversa anche nelle burocrazie a stelle e a strisce. Ultimissima, c’è stata la guerra dei camion: che secondo l’interpretazione messicana del Nafta, l’Accordo di Libero Commercio del Nord America, dovrebbero viaggiare liberamente tra i tre partner Usa, Messico e Canada; ma secondo l’interpretazione di Washington no. Nel 2007 i due governi avevano concordato un programma pilota che permetteva a un numero limitato di camion messicani di entrare negli Usa secondo rigide misure di sicurezza, e secondo i messicani i18 mesi di applicazione avrebbero dimostrato "che le imprese di trasporto messicane sono altrettanto sicure di quelle Usa". Ma la situazione è rimasta comunque bloccata, e da ultimo per rappresaglia il Messico ha imposto tariffe doganali comprese tra il 10 e il 45% a una lista di 89 prodotti Usa: una rappresaglia calibrata in modo da non danneggiare i consumi messicani, ma solo l’export Usa.