“Il modello gaullista e la Seconda Repubblica italiana”

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“Il modello gaullista e la Seconda Repubblica italiana”

24 Settembre 2013

Signori Presidenti, Signore e Signori,

il mio più sincero ringraziamento per l’invito rivoltomi ad intervenire a questa conferenza che coincide con un momento significativo della vita politica ed istituzionale dell’Italia, in particolare sul versante delle riforme. Si sono, infatti, appena conclusi i lavori della Commissione per le riforme costituzionali, istituita dal Presidente del Consiglio nel giugno 2013, e composta da personalità ed accademici esperti di diritto costituzionale. La Commissione, da me presieduta, ha elaborato una Relazione finale, sottoposta all’attenzione del Parlamento, contenente delle proposte di riforma delle istituzioni e del sistema politico italiano.

In questo contesto ed in questo momento storico, il modello gaullista attraversa una fase di grande popolarità nel dibattito pubblico italiano. Molti osservatori e molti uomini politici ritengono, infatti, che la crisi politica che ha investito negli ultimi mesi le istituzioni democratiche italiane presenti più di un’analogia con quanto avvenne in Francia alla fine della IV Repubblica e, pertanto, sostengono che una riforma della Costituzione italiana ispirata al modello semipresidenziale della V Repubblica francese potrebbe rappresentare una risposta efficace per i nostri problemi.

Ed in effetti oggi nel mio Paese, come sessanta anni fa in Francia, si registra una situazione nella quale ad una condizione di profonda debolezza dei partiti politici corrisponde un’elevata consapevolezza degli attori politici circa la necessità di porre con urgenza mano ad una riforma delle istituzioni che riesca a porre rimedio ai gravi deficit di capacità decisionale, di stabilità, di trasparenza e di rappresentatività che abbiamo di fronte.

Del resto, se la Costituzione della V Repubblica rappresentò la risposta di fronte alla situazione di profonda difficoltà dovuta alla crisi Algerina, oggi l’Italia si trova ad affrontare una situazione non meno grave nella quale le difficoltà del ciclo economico risultano esasperate dalla situazione di stallo istituzionale che si è venuta a creare dopo ultime elezioni politiche. Una situazione di stallo che reso necessaria la rielezione del Presidente Giorgio Napolitano, il quale ha accettato l’incarico proprio nella prospettiva di agevolare il processo di riforma istituzionale.

In proposito, credo sia opportuno però fare alcune considerazioni preliminari utili ad inquadrare correttamente il problema. In Italia, a partire dal 1994, è invalsa l’abitudine di qualificare come II Repubblica il sistema politico istituzionale che si è venuto formando a partire da quella data a seguito del repentino crollo dei partiti tradizionali che avevano dato vita nel 1948 al patto costituente, dopo il crollo del fascismo e la fine della II guerra mondiale.

In realtà tale definizione, forse utile in chiave giornalistica, non è a ben vedere del tutto corretta dal punto di vista tecnico. In Italia, a partire dal 1994 vi è stato un profondo rinnovamento di tutti gli attori presenti sulla scena politica. Nuovi partiti sono sorti e quelli che sono riusciti a sopravvivere alla crisi politica profonda che si registrò nel anni 1992-1993 hanno cambiato profondamente non solo la propria denominazione, ma anche la propria fisionomia politica di fondo.

Ma non solo sono cambiati gli attori presenti sul palcoscenico delle istituzioni politiche, è cambiato anche il copione che abbiamo messo in scena. Fino al 1993 la politica italiana si caratterizzava, soprattutto a causa della presenza del più forte partito comunista dell’Europa occidentale e dei vincoli internazionali conseguenti, per una sostanziale staticità degli assetti politici che, pur in presenza di una forte instabilità dei governi (la cui durata media era in quegli anni di 11 mesi), ruotavano sempre intorno ad una forza politica. Anzi possiamo dire che l’instabilità dei governi è stato per lunghi tratti il meccanismo che ha consentito al sistema di assorbire le dinamiche e le tensioni politiche all’interno di un quadro politico generale che per il resto rimaneva quasi immobile.

Dal 1994 l’Italia ha sperimentato l’ebbrezza dell’alternanza politica. Un’ebbrezza forse eccessiva se si pensa che da allora nessuna maggioranza è riuscita ad essere confermata nelle successive elezioni. Ma non è questo il punto. Il punto piuttosto è che tutta l’innovazione del sistema è stata determinata dall’evoluzione dei partiti, dei loro nomi, della loro configurazione, delle loro alleanze, dei loro linguaggi senza che tale evoluzione abbia mai trovato corrispondenza in un adeguamento delle strutture costituzionali. L’illusione che abbiamo coltivato è stata quella di costruire un sistema politico ispirato al modello Westminster, modello che per molti di noi rappresenta l’archetipo della democrazia ben funzionante.

Certo per la prima volta gli italiani hanno sperimentato la possibilità di andare alle urne per scegliere fra due coalizioni di partiti fra loro chiaramente alternativi; per la prima volta hanno votato conoscendo in anticipo il nome di chi sarebbe stato il Capo del Governo nel caso di vittoria dell’uno o dell’altro schieramento. Ma tutto ciò non era naturalmente sufficiente per trasformare una democrazia parlamentare bloccata, con profili di tipo assembleare in una moderna democrazia governante.

Rispetto al modello Westminster, da noi è mancato non solo l’assetto sostanzialmente bipartito del sistema politico ma anche, e soprattutto, l’introduzione di quei meccanismi di razionalizzazione e di stabilizzazione della forma di governo parlamentare che di quel modello sono ingredienti fondamentali.
In Italia abbiamo coltivato l’illusione che per cambiare il sistema fosse sufficiente riformare la legge elettorale introducendo meccanismi di tipo maggioritario nel processo di traduzione dei voti in seggi. Ma sistemi elettorali di tipo maggioritario, per quanto ben congegnati (e forse i nostri non lo sono stati), non sono in grado di produrre da soli una democrazia maggioritaria equilibrata ed efficiente. L’effetto delle riforme elettorali adottate negli ultimi vent’anni è stato quello di spingere il sistema verso forme estreme di alternanza, ma senza guadagnare nulla in termini di resa complessiva del sistema politico istituzionale.

Siamo passati dalla immobile instabilità della I Repubblica alla frenetica instabilità della fase attuale. I Governi durano forse un po’ di più, ma loro capacità realizzativa è anche minore di quella che si registrava in passato, quando, anche in presenza di governi brevi e instabili, la sostanziale fissità degli equilibri politici generali rendeva possibile la realizzazione di strategie di riforma di ampio respiro.
Ed è per queste ragioni ritengo che parlare, con riferimento all’evoluzione della democrazia italiana negli ultimi vent’anni, di “Seconda “Repubblica” non sia tecnicamente corretto. Piuttosto penso sarebbe meglio parlare di “secondo tempo della Prima Repubblica”. E non si tratta solo di una questione di adeguatezza semantica; continuare ad usare questa espressione rischia infatti di ostacolare la nostra comprensione dei problemi che abbiamo di fronte e quindi la definizione delle strategie più appropriate per affrontarli.

Ma il rischio di fraintendimenti ed errori di interpretazione si corre anche in relazione alla comprensione della effettiva natura dei poteri e delle istituzioni che non sono in quanto tali stati oggetto del vento del cambiamento degli ultimi anni. Basti pensare al Presidente della Repubblica il cui ruolo neutrale e di garanzia viene spesso invocato dai sostenitori del conservatorismo costituzionale, fieri oppositori di qualunque evoluzione in senso semipresidenziale della nostra Repubblica. In realtà, il Presidente della Repubblica non venne affatto disegnato dai padri costituenti italiani come figura neutra, quasi notarile, priva di poteri di natura politica. In realtà, il nostro Presidente della Repubblica dispone di alcuni poteri spiccatamente politici come ad esempio il potere di autorizzare la presentazione in Parlamento dei disegni del Governo o il potere di rinviare al Parlamento le leggi approvate dalle Camere. O come, soprattutto, il potere di intervenire in modo penetrante nella risoluzioni delle crisi politiche, eventualmente decidendo di sciogliere le Camere. Il punto è semmai comprendere fino a che punto i Presidenti che si sono succeduti hanno deciso di esercitare sino in fondo i poteri che la Carta fondamentale gli riconosce. E non c’è dubbio che nei primi decenni di storia repubblicana i Presidenti hanno fatto un esercizio assai parco di tali poteri anche in ragione della presenza di un sistema di partiti forte, strutturato e pervasivo.

Non è un caso che non appena i partiti sono stati interessati dal vento del cambiamento e, da ultimo, sono stati travolti dalla tempesta dell’”antipolitica”, il ruolo del Presidente si è pienamente riespanso ed divenuta chiara a tutti la natura intrinsecamente politica della sua funzione. Da questo punto di vista dobbiamo riconoscere che il ruolo e la funzione del nostro Presidente della Repubblica richiama per molti versi quella propria del Presidente francese nel Gaullismo originario. Occorre infatti non dimenticare che nell’impostazione iniziale, e comunque sino alla modifica costituzionale del 2000 che ha previsto la coincidenza dei mandati del Presidente e del Parlamento, durante le fasi, non meramente residuali, di coabitazione, il ruolo del Presidente della Repubblica francese retrocedeva dalla funzione di guida sostanziale dell’Esecutivo ed assumeva piuttosto i caratteri di garante dell’unità nazionale.

Le considerazioni circa il ruolo che il Presidente della Repubblica italiano esercita oggi, ed ha esercitato in passato, sono necessarie per meglio inquadrare le questioni che ha di fronte il mio Paese nel momento in cui discute in merito alle riforme da apportare alla Costituzione. Il nodo centrale che dobbiamo affrontare non è certo quello di garantire e semmai rafforzare la funzione di garanzia del Presidente della Repubblica. Il problema è piuttosto quello di introdurre nuovi meccanismi che, alla luce della generale evoluzione delle dinamiche politiche, del consolidarsi dell’alternanza fra schieramento diversi alla guida del Paese e del profondo processo di indebolimento dei partiti, consentano di razionalizzare e di stabilizzare la nostra forma di governo rafforzando in particolare il ruolo di guida del sistema riconosciuto all’Esecutivo.

Ritengo sarebbe un errore fatale affidarsi, come vorrebbe chi in Italia si oppone ad ogni incisivo disegno di riforma delle istituzioni, completamente alle dinamiche politiche per risolvere i problemi che derivano dalla debolezza della nostra architettura costituzionale.

La strada più naturale sarebbe quella di riconoscere che, per le profonde differenze dei contesti politici, culturali e sociali, non è possibile immaginare di realizzare in Italia il modello Westminster semplicemente affidandosi ai meccanismi della democrazia parlamentare ed immaginare, così come fece la Francia nel passaggio alla V Repubblica, un modello nel quale proprio l’elezione diretta del Presidente della Repubblica svolga quella funzione di stabilizzazione e razionalizzazione della democrazia parlamentare. L’obiezione contro tale soluzione, che viene normalmente avanzata in Italia, riguarda il venir meno di una figura neutra e di garanzia, necessaria se non altro per risolvere le situazioni di crisi e di stallo che si possono comunque verificare. Ritengo tale obiezione infondata, poiché sono convinto che in sistema semipresidenziale ben disegnato sia possibile individuare meccanismi e contrappesi idonei a fugare i timori di “dittatura della maggioranza” che vengono evocati in proposito. Occorre inoltre considerare che l’inserimento di gran parte delle democrazie del vecchio continente nella trama istituzionale dell’Unione Europea rappresenta il più efficace antidoto contro i rischi di abuso del potere della maggioranza.

Ma naturalmente l’opzione di tipo semipresidenziale non può essere ritenuta l’unica. È infatti possibile delineare un assetto istituzionale che coniughi i vantaggi di tale modello con quelli propri di un regime di tipo parlamentare. L’idea che è stata valutata dalla Commissione di esperti nominata dal Governo italiano che ha terminato i propri lavori nei giorni scorsi è quella di associare ad una legge elettorale che realizzi l’obiettivo di garantire esiti elettorali che indichino con chiarezza assoluta il partito (o la coalizione di partiti) che ha vinto ed il leader che guiderà il Governo, meccanismi incisivi di stabilizzazione di razionalizzazione del governo parlamentare. Tali meccanismi dovranno riguardare naturalmente sia la fase genetica del Governo (rafforzando la forza del premier al momento della nomina dei ministri e dell’ottenimento della fiducia parlamentare) sia l’attività del Governo durante il suo mandato (con il rafforzamento dei poteri del Governo in Parlamento, ad esempio con riferimento alla formazione dell’ordine del giorno) sia la fase delle crisi politiche (con meccanismi di sfiducia costruttiva e di richiesta di ricorso anticipato alle urne che rappresentano i migliori antidoti contro le degenerazioni del parlamentarismo).

L’idea è quella della forma di governo parlamentare del Primo Ministro, la quale non rappresenta che una variante del modello semipresidenziale rispetto alla quale conserva la funzione di garanzia e di interprete delle emergenze proprie del Presidente della Repubblica. E l’analogia fra semipresidenzialismo e forma di governo del primo ministro è confermata dal fatto che il sistema elettorale che meglio si adatterebbe a tale modello è quello che prevede, dopo lo svolgimento del primo turno, un ballottaggio fra i primi due partiti (o le prime due coalizioni di partiti) ciascuno dei quali indicherebbe il proprio candidato per la carica di Primo Ministro, il quale quindi otterrebbe una legittimazione diretta dalla consultazione elettorale. Non a caso nella relazione della Commissione si ipotizza anche di affidare l’elezione del Presidente della Repubblica ad un collegio elettorale allargato che, per la sua composizione, ricorda da vicino quello immaginato in Francia nel 1958.

Naturalmente vi sono anche altri capitoli in questo disegno di riforma. Basti pensare al superamento del bicameralismo paritario che rappresenta un potente fattore di destabilizzazione della forma di governo, le regole sul procedimento legislativo, la disciplina dei rapporti fra lo Stato e gli altri livelli di governo (Regioni e autonomie territoriali).

Tali aspetti però potranno trovare una adeguata sistemazione se e solo se avremo finalmente deciso quale forma dovrà assumere la nostra forma di Governo dopo gli sconvolgimenti storici e sociali che sono intervenuti negli ultimi decenni e che hanno reso ormai obsoleti alcuni importanti tratti del modello disegnato dai nostri padri costituenti.

Vi ringrazio dell’attenzione.

(Intervento del Ministro per le Riforme Costituzionali, Gaetano Quagliariello. Fondation Charles De Gaulle, Parigi, Palais De Luxembourg, 24 Settembre 2013)