Il mondo arabo non amava Gheddafi ma ora può risollevare la Libia
29 Agosto 2011
di Nino Orto
Chissà se in quei giorni settembrini del lontano 1969, il semi-sconosciuto giovane capitano di fanteria Muhammar Gheddafi, l’eroe che aveva deposto la corrotta monarchia di re Idris, instaurato la Repubblica, e che si accingeva a diventare custode e protettore degli ideali rivoluzionari libici, poteva immaginare che quattro decadi dopo, nello stesso mese della gloriosa rivoluzione, esso stesso sarebbe diventato vittima della medesima carica ideologica da cui aveva cominciato la propria carriera politica.
E’ da credere realmente che quel manipolo di cadetti junior capitanati dal giovane e ambizioso Gheddafi, intrisi di pan-arabismo e ideologicamente estremizzati dopo la tragica sconfitta degli eserciti arabi contro Israele nel 1968, erano fermamente convinti di poter e dover formare un’unica grande e potente nazione araba retta dalla solidarietà musulmana ed inserita in un sistema socialista. Certo, tutto ciò in funzione anti-israeliana e immersa nella cultura bipolare della Guerra Fredda, ma sicuramente sincera.
Tuttavia, si sà, la Storia tira brutti scherzi e nei successivi anni le epurazioni di massa e l’annientamento fisico di ogni gruppo rivale, imprimono una brusca svolta autoritaria nella gestione del paese da parte di Gheddafi. L’affievolirsi poi dell’ideale pan-arabo e il prevalere degli interessi nazionali a quelli ideali, hanno fatto sì che la gestione della rivoluzione in chiave panaraba finisse per involversi in una autarchia personale da parte del colonnello, relegandolo ad una posizione marginale del mondo arabo.
Tale marginalizzazione non è frutto del caso ma prodotto della ambigua e opportunistica politica estera del rais libico. Dopo aver in un primo momento appoggiato l’unione con l’Egitto negli anni ’70, resosi conto dell’impossibilità di farlo, ha nel corso degli anni proposto unioni con l’Algeria, Tunisia, Marocco e perfino con il Sudan e la Siria. Negli anni ’80 ha finanziato oscuri gruppi palestinesi che agivano senza nessun legame con paesi arabi o con strutture operative dell’OLP innervosendo non poco le capitali arabe. Dagli anni ‘90 in poi, la scelta del colonnello di abbandonare gli ideali nasseriani e puntare tutto su una politica estera pan-africana lo ha allontanato ulteriormente dalla scena mediorientale.
Queste sopra elencate sono tutte chiavi di lettura che possono far capire come, nel corso degli anni, le avventure diplomatiche di Gheddafi hanno prodotto l’attuale clima di diffidenza e di ostilità di più paesi arabi nei suoi confronti, giustificando così l’aperto appoggio di questi alla sua destituzione.
Allo stato delle cose, dopo sei mesi di rivolte in Libia, sembra ormai certa la fine di Gheddafi e la sua incriminazione di fronte alla Corte penale internazionale a meno che la NATO non disponga in extremis di un salvacondotto per l’ormai ex-rais. Tuttavia, se l’appoggio della Francia e Gran Bretagna con al seguito la Nato possono essere scelte strategiche comprensibili, non si può dire lo stesso per l’atteggiamento dei paesi arabi nei confronti del conflitto libico, ciò non tanto per l’ostilità personale nei confronti del colonnello, quanto per le possibili conseguenze destabilizzatrici nella regione.
Fatta eccezione per Siria e Algeria, l’unanimità con cui il mondo arabo si è schierato per l’istituzione della no-fly zone è stato un evento memorabile almeno tanto quanto la partecipazione militare di un paese musulmano contro un altro Stato musulmano sotto l’egida della Nato. Vale la pena di ricordare che sotto tale scomunica non scritta perfino la Turchia si rifiutò di concedere lo spazio aereo ai caccia americani diretti in Iraq.
Tali circostanze fanno ben capire come il mondo arabo, e le monarchie del Golfo in testa, siano realmente felici di questa insperata debaclè dell’apparato di potere non monarchico più longevo del XX secolo, cioè quello di Muhammar Gheddafi. Il memorabile cane pazzo, coniato da un anonimo analista per raffigurare la figura politica del colonnello sembra trovare d’accordo anche le capitali arabe. Tralasciando questo, è un dato di fatto che la relativa facilità con cui il regime è crollato militarmente ed economicamente, è dovuto in gran parte al totale silenzio in sede internazionale della Lega degli Stati arabi e al rifiuto dei più potenti di essi, a fornire una mediazione con gli americani.
Probabilmente Gheddafi, nella sua mania di onnipotenza, ha sottovalutato i malumori e la reale entità della spaccatura con la Cirenaica all’inizio delle rivolte a Bengasi, decretando così la sua fine. C’è da notare tuttavia che lo stesso errore potrebbero commetterlo gli stessi paesi arabi che, con la loro decisione di avvallare il conflitto armato, stanno sottovalutando il rischio di una balcanizzazione dell’area ed una conseguente destabilizzazione di una grossa fetta di Nord-Africa.
Se economicamente e militarmente, nell’attuale fase della guerra in Libia, è la Nato ad imporre la propria agenda politica e militare tesa a distruggere il regime di Gheddafi, in un secondo momento forse non troppo lontano, nella fase politica del conflitto, sarà compito dei paesi arabi stabilizzare politicamente la nazione libica.
Compito sicuramente non facile visto che le unità sociali fondamentali in Libia sono i clan, e non c’è nessuna trattativa politica, economica e militare, che possa vedere la luce senza un accordo preventivo tra i più potenti tra di essi. L’Italia, la Francia, l’Inghilterra potranno sicuramente investire miliardi di euro in aiuti per l’instaurazione di un apparato politico in grado di reggersi da solo tuttavia, come in uno scenario già visto in Afganistan, sarà l’equilibrio di potere che si verrà a creare tra i vari clan a plasmare l’identità culturale e politica della nazione libica e a dettare l’ultima parola sul futuro del paese.
L’appello della Lega araba alle Nazioni Unite affinché vengano sbloccati al più presto i beni libici congelati in sede internazionale, è un chiaro segno della volontà araba di ricostruire al più presto una economia solida in grado di amalgamare il complesso tessuto politico e sociale della nazione, sottraendo così all’estremismo islamico la possibilità di attecchire negli strati sociali più poveri.
Nonostante ciò, sullo sfondo, in una Unione Europea sempre più impelagata in una crisi economica senza precedenti, sono ulteriormente visibili i già noti handicap strutturali che impediscono a Bruxelles di parlare con una sola voce, soprattutto in tema di politica estera. Ciò impedisce seriamente qualsiasi lucida analisi sul medio-periodo su quello che potrebbe accadere in Libia, specialmente senza un chiaro e preciso piano di aiuto non solo per la Libia, ma per l’intera area del Maghreb.
La buona volontà europea, americana e degli stati arabi nel liberare la nazione da un sanguinario despota potrebbe risultare infruttuoso senza un piano ben preciso di quello che dovrà accadere nel dopo-Gheddafi, con tanti auguri per chi vede di buon occhio la Libia come un nazione-fallita.
Come autorevoli analisti occidentali e non, hanno giustamente sottolineato la possibilità che dietro la rivoluzione libica ci sia il reale pericolo di una presa di potere da parte degli integralisti islamici, questa tuttavia potrebbe essere una visione solo parziale della reale situazione sul campo e su quello che potrebbe accadere nella Libia post-Gheddafi.
Non c’è alcun dubbio che le divisioni all’interno della società libica siano incentrate sull’accettazione o meno della democrazia occidentale, e che gli islamisti potrebbero intercettare facilmente i malcontenti e le frustrazioni di una popolazione piena di entusiasmi per il futuro, a questo quadro bisogna però aggiungere le divisioni territoriali ed etniche che complicano non di poco lo scenario.
Le due maggiori province della Libia, la Tripolitania ad Occidente e la Cirenaica ad Oriente, sono divise dal deserto della Sirte che non rappresenta solo una divisione amministrativa ma rispecchia la reale divisione fisica, etnica e sociale del paese in due componenti fondamentali. Mentre la Cirenaica rappresenta la parte araba della popolazione, in Tripolitania la componente etnica fondamentale è costituita da berberi e senza riportare in particolare le distinzioni che potrebbero derivarne, si evince facilmente che l’appartenenza clanica ed etnica giocherà un ruolo chiave negli sviluppi futuri. Se a questo si aggiunge poi che sotto il regime di Gheddafi la gestione economica e infrastrutturale era tutta a favore della regione della Tripolitania, il quadro generale diventa ancora più fosco.
Se Londra e Parigi con l’aiuto fondamentale della compagine dei paesi arabi, riuscirà a trattenere i ribelli dalle vecchie vendette etniche e le nuove rivalità claniche per il controllo del potere, e ad agevolare la formazione di un tessuto economico che favorisca l’attecchimento di strutture democratiche capaci di redistribuire gli introiti petroliferi e far sviluppare uniformemente il paese, le migliori intenzioni della comunità internazionale diventerebbero una realtà concreta e toglierebbero il terreno sotto i piedi degli islamisti.
Se al contrario tutto ciò non dovesse accadere, molto probabilmente si assisterà ad un tutoraggio della Libia da parte di nazioni straniere che, grazie ad un sapiente bilanciamento tra gli elementi dei vari clan nell’assegnazione di posti chiave del potere riusciranno con molta probabilità a stabilizzare la nazione, ma con quali garanzie?