Il mondo delle idee è molto lontano dalla realtà ma Bodei forse non lo sa
05 Giugno 2009
Non ho alcuna competenza per valutare l’opera filosofica di Remo Bodei, uno studioso il cui alto prestigio internazionale è testimoniato dalla cattedra che dal 2006 ricopre alla UCLA di Los Angeles. Da umile lettore dei suoi articoli – pubblicati da ‘Repubblica’ dall’Unità’, dal ‘Sole-24 Ore – resto, però, ogni volta sorpreso nel constatare come la sua intelligenza profonda e acuta, nutrita di un vasto sapere che si estende in tutti i campi delle Humanities, non gli faccia avvertire, ogni volta che affronta i grandi problemi sociali, etici, politici del nostro tempo, la necessità di uscire dal discorso vago e generico che caratterizza gli scritti di tanti suoi condiscepoli di scuola filosofica e di fede politica rimasti in Italia non avendo ricevuto offerte d’insegnamento all’estero. La sintesi del suo saggio, "La presunzione dell’Occidente", pubblicata su ‘la Repubblica’ il 30 maggio u.s. è particolarmente esemplificativa dello ‘stile di pensiero’ al quale faccio riferimento. Uno stile di pensiero che fa pensare all’ariostesco Ferraù che “ pel bosco molto s’avvolse, e ritrovossi al fine onde si tolse”. Esso consiste nell’accatastare i problemi più ardui del mondo contemporaneo, condire i fatti con i valori, mescolare e rimescolare per ritrovarsi alla fine punto e a capo: i problemi stanno sempre lì, sia pure espressi in termini eleganti e sapienziali, ma le soluzioni proposte appaiono “qual fumo in aere e in acqua la schiuma”. Resta solo una retorica che produce una sgradevole sensazione di dèjà vu: un castello di carte costruito su constatazioni così ovvie che a impedire di tirarle fuori sarebbe bastato solo un po’ di ritegno. Ne deriva che, come capita spesso in questi casi, si stenta a dare un nome e un volto alle posizioni ideologiche con cui si polemizza, riuscendo difficile pensare che certe premesse non siano condivise da tutti.
Dire, tanto per cominciare, che l’Europa "è costitutivamente la patria della diversità, è fatta di differenze” e che “volerle unificare è assurdo, così come sarebbe ridicolo voler perseguire l’integrazione culturale per ottenere un melting pot analogo a quello degli Stati Uniti” trova d’accordo destra e sinistra, materialisti e spiritualisti, atei e credenti. Anche per la semplice ragione che ci si guarda bene dallo specificare l’ambito semantico della ‘diversità’ e delle ‘differenze’, dell’’integrazione’ e del ‘melting pot’. Per ciascuno di noi, il vecchio continente è fatto di tante irriducibili ‘patrie’: le divisioni cominciano quando si deve stabilire come unificarle senza far perdere ad esse le loro identità – o meglio, per uscire dal generico, quei tratti culturali, religiosi, istituzionali che esse ritengono irrinunciabili entrando in una più vasta comunità politica.
Per Bodei, almeno in teoria, la soluzione è molto semplice ed è la riproposizione di un vecchio tema di Jürgen Habermas: “C’è bisogno, almeno nel presente, di incoraggiare la condivisione di una struttura istituzionale e di un patriottismo costituzionale, in modo che gli stati membri vecchi e nuovi seguano regole intonate ai principi democratici, alla diffusione dei diritti umani e all’adattamento a nuove strutture economiche. L’intera struttura deve venir rafforzata, specialmente per le generazioni europee più giovani, da un sistema educativo teso a creare una cittadinanza europea, la cui ricchezza deve prodursi catalizzando le differenze all’interno di un progetto di crescita condiviso”
Chiaro, no? Magari lo fosse davvero giacché, a ben guardare, non c’è alcuna indicazione sul come far scendere il sermone etico-politico dall’empireo platonico alla feccia di Romolo. Quando si parla di “condivisione di una struttura istituzionale e di un patriottismo costituzionale” che cosa si ha in mente? Una Magna Carta europea, che s’imponga a tutte le legislazioni statali? E sia pure! Ma un documento tanto impegnativo non comporta il necessario superamento di conflitti di interessi e di valori che oggettivamente dividono, anche trasversalmente, le società europee attuali? E al termine del conflitto, quali interessi e quali valori verranno anteposti o posposti agli altri? E sulla base di quali principi e di quali metodi? Tutto filerebbe se si potessero identificare con sicurezza – ovvero mettendo da parte gli schematismi ideologici – le forze politiche e sociali restie a seguire le “ regole intonate ai principi democratici” e contrarie “alla diffusione dei diritti umani” ma, ancora una volta, “fuori i nomi!”. E qualora i nomi vengano poi fatti ci si spieghi perché proprio quelli e non altri e lo si spieghi all’interno di un’analisi rigorosamente scientifica, sul piano sociale, economico, politico, non all’interno della chiacchiera salottiera o del vecchio moralismo nazionale, portato da sempre a criminalizzare la ‘concorrenza’ politica. Analogamente si vorrebbe dare un contenuto preciso all’”adattamento a nuove strutture economiche”, trattandosi di una dimensione cruciale della nostra esistenza quotidiana – ne vanno di mezzo il pane e il lavoro. Al solito, però, quando sta per “venire il bello”, si passa ad altro: a “un sistema educativo teso a creare una cittadinanza europea”, alla catalisi delle “differenze all’interno di un progetto di crescita condiviso”. Quale progetto? E condiviso da chi? E se quello che hanno in mente Bodei e C. non fosse ben accetto alle maggioranze elettorali degli stati nazionali, se ne dovrebbe concludere, parafrasando il Generale De Gaulle, che “gli europei non sono degni dell’Europa”?
In realtà, quale sia poi il progetto di Bodei non è difficile capire se ci si piazza sulle nuvole delle enunciazioni generali: è il socialismo liberale esteso su scala continentale, le vecchie formule dell’ircocervo riproposte come la chiave di volta per venire a capo di tutte le difficoltà della politica contemporanea: “sposare la domanda di libertà con quella di uguaglianza all’interno dei propri stati”, “impedire che la libertà diventi un privilegio in un mondo lacerato dai conflitti, e l’uguaglianza un vuoto slogan ideologico”. Nessuno, purtroppo, ha finora realizzato l’endiadi libertà/eguaglianza e tanto meno lo ha fatto il “socialismo reale”, ma il fallimento di quest’ultimo – "magari non definitivo”, un inciso che la dice lunga! – “non può essere la giustificazione per lo sviluppo di modelli di liberalismo cosiddetto”selvaggio”“. Insomma la ricetta buona Bodei ce l’ha: rispettare i diritti – civili, politici, sociali – di tutti in un contesto istituzionale aperto e garante della libertà di tutti. Nessun sospetto che si tratti di un preambolo tanto generoso quanto vago e che il gioco cominci veramente quando si pone la domanda, cruciale per il politico sul campo, “quid agendum?”. Né affiora il minimo dubbio che i contrasti tra i partiti nascano non sulle ‘Idee dell’89’ ma sul modo di tenerle unite. Più libertà a banche e a imprese o più controllo statale? Abbattimento delle frontiere doganali o dosi calibrate di protezionismo? Misure a difesa della propria lingua o rassegnazione all’inglese (o allo spagnolo) come strumento di comunicazione universale? Decisioni in un senso o nell’altro non possono venir riguardate a priori come le une buone, le altre cattive, giacché si rifanno a ‘filosofie politiche’ non sempre conciliabili ma sempre rispettabili e che comunque richiedono di essere conosciute e analizzate. Politici ed economisti , da un lato, e filosofi e moralisti, dall’altro, non stanno in rapporto come il braccio e la mente, come credono gli intellettuali militanti: nessuno autorizza gli uni a disinteressarsi della fureria, limitandosi a dare direttive ideali che gli altri si incaricheranno di eseguire. Soprattutto in una società secolarizzata in cui il potere temporale si è da tempo emancipato dal potere spirituale (prima dei preti, poi degli ‘intellettuali’). In un’epoca che considera gli individui – indipendentemente dal ceto, dalla classe, dalla cultura – eguali in quanto cittadini, titolari della stessa percentuale di sovranità e, in virtù del principio “un uomo, un voto”, forniti della stessa scheda elettorale, ragionare come se una parte di loro perseguisse l’interesse collettivo e un’altra il proprio bieco egoismo, significa essere rimasti fermi – sia pure sotto altri vessilli e simboli sacri – alla forma mentis dell’età dell’Inquisizione.
Nel modello bodeiano, come la libertà si coniuga disinvoltamente con l’eguaglianza–nel patto d’acciaio contro il “ liberalismo cosiddetto”selvaggio” – così il “particolare” si coniuga con “l’universale”, senza dar luogo a nessun problema di sorta: i drammi della convivenza tra etnie diverse registrati sulle cronache dei giornali e nelle ricerche degli studiosi immuni dal virus ideologico, dipenderebbero da conflittualità suscitate ad arte. “Ogni paese europeo ha la propria storia, che deve poter interagire con la storia degli altri. Ogni cittadina e ogni cittadino europeo ha le proprie caratteristiche, che vanno preservate a vari livelli: si può essere europea/o, italiana/o, toscana/o o napoletana/o. L’Unione Europea non deve precludere alcuna forma di attaccamento a patrie locali, alcun localismo, e in alcun modo implica che lo Stato, anello di congiunzione fra comunità locali e Comunità Europea, debba sparire o che l’identità" venga minata”,”Vaste programme!” avrebbe detto il già citato Generale De Gaulle. Peccato che non si dica nulla sulle strategie per perseguirlo e che si lasci soltanto intendere che, in ogni caso, si renderà indispensabile una enorme mobilitazione di risorse sotto la regia della sfera pubblica, dal momento che Bodei non sembra disposto a ‘lasciar fare’ alla storia e alla dialettica delle culture, nel quadro del rispetto delle nostre istituzioni da lui ritenute inadeguate ai nuovi tempi.
“Oggi, scrive, le idee di "civiltà", "umanità" e "umanesimo" sono viste con sospetto, accusate come sono di confondere irrimediabilmente l’essenza dell’umanità con quella di una sua forma storica particolare, la giudeo-cristiana. E l’accusa è che il vero universalismo è stato sostituito da un universalismo imposto con secoli di violenza e sfruttamento. La sfida è dura e richiede coraggio su due fronti: da un lato, nella determinazione a considerare le critiche mosse dalle altre culture, ascoltando le loro voci; dall’altro, nella volontà di scrutare il lato in ombra dell’universalismo europeo e occidentale, chiedendoci se e dove sia in errore”. Decifrare “queste parole di colore oscuro” non è agevole. Che “l’essenza dell’umanità” non vada confusa “con quella di una sua forma storica particolare, la giudeo-cristiana” è scontato anche per il cattolico più antimoderno (tipo Franco Cardini) ma quale conclusione dovremmo trarne? La rinuncia dell’Europa a “esportare i principi di libertà e di democrazia”? Passi pure in politica estera: due grandi conservatori come Harry Kissinger e il compianto Samuel P. Huntington erano decisamente contrari ad esportare in Iraq il modello democratico occidentale. Ma per quanto riguarda la politica interna, si dovrebbe rinunciare – prestando attenzione alle “critiche mosse dalle altre culture” – al nostro diritto, ai nostri codici civili, ai nostri costumi, alle nostre istituzioni democratiche che non fanno distinzioni tra i sessi, tra le religioni, tra le etnie? “Non esiste”, certo, “una civiltà superiore” europea ma per noi, ricordando la risposta del governatore inglese al rajà indiano, la legge che vieta il sacrificio della vedova sul rogo del coniuge è “più civile” di quella indiana che fa della moglie un’appendice del marito, in vita come in morte. Certo non tutte le nostre leggi sono “più civili” di quelle degli altri ma quale criterio abbiamo per stabilirlo se non il ricorso ai parametri universalistici del nostro “sospetto umanesimo”? Non fu in base a quei parametri che il siciliano ‘delitto d’onore’ ci apparve come un residuo tribale inaccettabile?
Bodei è molto generoso e ci chiede di seguirlo nella sua grande apertura francescana all’altro e al mondo: “differenze aperte al processo di universalizzazione, all’interazione con altre culture, all’elaborazione di modelli alternativi di appartenenza e di cittadinanza. Per questo è necessario sostenere concetti come quello di métissage di tutta l’umanità, di reciproca fecondazione culturale, e ristabilire le "differenze", rifiutando la presunzione di un Occidente che si proclama portatore della sola Civiltà degna di questo nome”. Belle parole che facciamo volentieri nostre a patto di capire cosa ne consegue, nel concreto dei rapporti sociali, politici ed economici quotidiani. O meglio, a patto di stabilire se questi incontri reciprocamente fecondanti debbono avvenire in una ‘società aperta’, lasciando ai singoli la libertà di incontrarsi e di scambiarsi modelli culturali – come nel bellissimo, dolente, film di Clint Eastwood, Gran Torino – costruendo il métissage, per così dire, dal basso, spontaneamente e secondo i tempi e i modi di società comunque rispettose dei quadri legislativi vigenti o se la nuova identità europea – "un work in progress, una fune fatta di fili diversi, che tanto più si rinforza quanto più i fili sono ben intrecciati fra loro” – debba mettere in moto tutte le risorse dello ‘stato sociale’, riformare ab imis i programmi scolastici, costituire commissioni interetniche dotate di poteri di intervento nelle varie realtà educative, reclutare schiere di psicologi, di sociologici, di statistici, di assistenti sociali con l’incarico di guarirci dall’etnocentrismo, di avvicinare le culture, di non mettere a disagio i nuovi venuti con simboli ed emblemi divisivi e conflittuali.
Tempo fa, in una chiesa di Bologna alcuni fondamentalisti minacciarono attentati per un quadro trecentesco che mostrava Maometto tra i dannati infernali. Un docente islamico dell’Università di Trieste propose che in questi casi si sarebbe dovuto porre sotto il quadro un cartello (in arabo) per spiegare come, ai tempi di Dante, il linguaggio non fosse ‘politically correct’! Un’idea geniale da riprendere giacché prefigura una nuova professione – in linea con l’”"universalismo" ospitale, aperto e non-fondazionalista, pluralistico e costantemente in evoluzione, capace di accogliere culture diverse, rendendole compatibili le differenze senza ghettizzarle”–: l’integratore culturale ovvero l’esperto che previene gli scontri tra le culture spiegando, illustrando, rassicurando i pregiudizialmente ostili. Se prendesse piede, i sindacati potrebbero reclutare nuove categorie professionali, le amministrazioni pubbliche ingrossare le file dei loro dipendenti, i laureati trovare nuovi sbocchi occupazionali, il Welfare State rinvigorirsi, i tribunali aprire sezioni speciali. E’ vero che poi toccherebbe al fisco reperire i fondi necessari con nuove imposte ma, si sa, per filosofi e letterati l’economia non è mai stata un ostacolo sulla via delle ‘grandi riforme’.