Il neo-puritanesimo politico: l’ideologia di una piccola borghesia frustrata

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Il neo-puritanesimo politico: l’ideologia di una piccola borghesia frustrata

Il neo-puritanesimo politico: l’ideologia di una piccola borghesia frustrata

13 Febbraio 2011

Come molti osservatori hanno già sottolineato, l’ondata di rigorismo intransigente in materia sessuale esplosa da qualche tempo nell’area della sinistra italiana a censura dei comportamenti privati di Silvio Berlusconi è gravata in origine da una stridente contraddizione tra il relativismo etico ormai universalmente dominante negli ambienti politici progressisti – ed in particolare l’abituale insistenza su un’etica sessuale libertaria, sprezzante verso qualsiasi tradizione e legame – e l’improvviso suo rovesciamento in grida di indignazione per i "costumi" civili del paese quando il praticante del "libero amore" assume le fattezze dell’attuale presidente del Consiglio.

Ma la recente torsione "neo-puritana" della cultura di sinistra non può essere rubricata soltanto, a mio avviso, come un espediente puramente strumentale. Né si può spiegarla esaurientemente con la tendenza delle élites intellettuali, orfane delle ideologie totalitarie novecentesche, a colmare il vuoto con para-dottrine moraleggianti, come quella riassumibile nel termine "politically correct".

Nella "cultura del piagnisteo" rientra, certo, a pieno titolo anche l’affermazione di un rinnovato moralismo inerente la sfera dei comportamenti sessuali, seguito all’ondata del "liberazionismo" post-sessantottino e in parte derivato da una torsione "correttista" del femminismo e dell’individualismo libertario. Ma i fenomeni virulenti di "perbenismo" sessual-politico ai quali attualmente assistiamo nel nostro paese non derivano soltanto, o principalmente, da questa matrice. Essi vanno invece ricondotti all’interno di una più generale tendenza alla declinazione moralistica del conflitto politico, manifestatasi in misura crescente nell’ultimo trentennio, e connessa in realtà ad una profonda mutazione socio-culturale.

Essi trovano il loro "habitat" naturale, infatti, soprattutto in una piccola borghesia di recente stratificazione, generata, in Italia come nel resto dell’Occidente, dai grandi sistemi di economia mista e di welfare state sviluppatisi nelle democrazie liberali a partire dal secondo dopoguerra. E sono, in effetti, la manifestazione di una vera e propria rivolta antipolitica, dettata da una epocale delusione nei confronti della democrazia diffusasi tra i ceti legati al pubblico impiego, dall’amministrazione centrale e periferica all’insegnamento, che si sono enormemente ampliati in Italia dagli anni Cinquanta-Sessanta in poi.

Questi ceti – prevalentemente di estrazione socio-culturale molto modesta – avevano acquisito in breve tempo, grazie appunto all’espansione della spesa pubblica, livelli di stabilità occupazionale e sicurezza sociale praticamente senza precedenti nella storia. Ma, ciò che è ancor più importante, almeno fino agli anni Ottanta essi avevano profondamente interiorizzato la convinzione che il proprio status economico e la propria rilevanza sociale sarebbero costantemente migliorati nel corso del tempo, e che le generazioni successive alla loro avrebbero potuto aspirare a divenire parte delle classi dirigenti.

A questa fascia sociale vanno poi aggiunti settori rilevanti delle cosiddette "professioni liberali" (medici, avvocati, architetti, giornalisti), i quali hanno trovato anch’essi per decenni nell’espansione dell’interventismo statale notevoli occasioni di carriera e di ascesa socio-economica, e che in molti casi sono oggi i figli proprio di quel ceto impegatizio statale che, per la prima volta nella loro tradizione familiare, hanno potuto accedere agli studi universitari. Infine, non a caso da quella classe piccolo-borghese proviene anche gran parte delle nuove leve della magistratura italiana: alla generazione di magistrati ideologizzati e "rivoluzionari" degli anni Sessanta ne è subentrata un’altra, molto più numerosa, tendente a considerare l’appartenenza al "terzo potere" come una sorta di ramo privilegiato del pubblico impiego.

In generale, in tutta la nuova piccola e media borghesia "garantita" del dopoguerra l’ottimismo per le future prospettive di status era fondata sulla convinzione di una naturale corrispondenza tra avanzamento del livello di istruzione e miglioramento della condizione lavorativa e sociale.

La progressiva crisi e disgregazione del consenso euro-occidentale fondato su economia mista e sicurezza sociale dagli anni Ottanta in poi, la dissoluzione del sistema formativo legata all’egualitarismo e alla pan-sindacalizzazione post-’68, e infine l’ondata della globalizzazione economica, in breve volgere di tempo incrinavano anche nel nostro paese le certezze coltivate da quei ceti. In Italia, rispetto ad altri contesti occidentali, il processo di erosione è stato più lento e diseguale, a causa di una radicata strutturazione corporativa della società che ha resistito tenacemente ai mutamenti, tanto più in presenza di una classe politica indebolita dalla "democrazia bloccata". Ma nelle fasce sociali di più recente ascesa anche smottamenti tutto sommato limitati della "rete di sicurezza" hanno prodotto un dilagare di incertezza e pessimismo. Che in breve tempo si sono trasformati in un’enorme carica di frustrazione, di rancore, di invidia sociale: verso i ceti imprenditoriali e del terziario più o meno integrati con i nuovi equilibri economici, immediatamente bollati da condanna morale come evasori fiscali e corruttori; e verso i politici accusati di favorirli ai danni dei "cittadini onesti".

Sentimenti aggressivi dagli effetti tanto più dirompenti, se si considera che, fin quasi dalla costruzione dello Stato unitario, si era radicata già in Italia una lunga tradizione "antipolitica" fondata sulla denuncia di una distanza abissale tra "paese legale" e "paese reale". E culminati, significativamente, nel rovesciamento della classe politica della "prima Repubblica" proprio attraverso il lavacro giudiziario di "Mani pulite", in un clima apocalittico di invettiva moralistica.

La cultura antipolitica diffusa dominante nella "seconda Repubblica", con le sue esplosioni di livore e la sua aspirazione catartica, prolifera dunque innanzitutto in questi ceti impiegatizi, docenti, professionali ormai cronicamente amareggiati, offesi dal trauma delle proprie lower expectations, dal crollo delle proprie illusioni di crescente benessere e rispettabilità.

Ed è soprattutto quest’ultima categoria, quella di rispettabilità, che tali ceti hanno riversato brutalmente, declinandola in negativo, sulla nuova classe politica, ed in particolare proprio sul suo maggiore esponente, Silvio Berlusconi. Supremo rappresentante simbolico, ai loro occhi, delle classi imprenditoriali "colpevoli" di non condividere il loro lutto, e di avere invece una visione positiva dei nuovi equilibri socio-economici; e, soprattutto, di aver guadagnato un’ascesa sociale senza il "decoro" che i piccolo- e medio-borghesi del dopoguerra giudicavano invece connaturato alla propria acquisizione di un più alto livello di istruzione, ed al proprio inserimento nei ranghi dello Stato o nel suo "indotto".

E’ a questo bacino socio-culturale che ha attinto, negli ultimi anni, il consenso al giustizialismo dipietrista, ai "girotondi" di Nanni Moretti, al populismo di Beppe Grillo. E’ da qui che proviene in gran parte la turba di "indignati" che divora avidamente lo pseudo-giornalismo savonaroliano di Marco Travaglio e di Michele Santoro, o ascolta devotamente il catechismo mediatico del duo Fazio-Saviano.

E’, infine, da quella gigantesca riserva di rancore sociale che deriva oggi il nuovo perbenismo sessuofobico mascherato da femminismo o da scandalo per la degenerazione dei costumi.

Berlusconi viene condannato irrevocabilmente dai neo-puritani per il peccato mortale di "godersi la vita", di adottare uno stile di vita edonista e libertino che è il contrario della "rispettabilità" piccolo-borghese. Quella rispettabilità che, in una certa fase storica, la larga fascia di homines novi cresciuta all’ombra di uno Stato benevolmente protettivo aveva immaginato come il trampolino di lancio verso l’ingresso a pieno titolo nelle élites, nella società "che conta".