Il neoliberalismo nel nostro Paese vale come la vittoria di Pirro

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Il neoliberalismo nel nostro Paese vale come la vittoria di Pirro

01 Giugno 2010

Lasciamo da parte la questione tagli ai cosiddetti “enti inutili” o reali “enti inutili”, per sensibilità a loro dire “liberali”. Questo neoliberalismo di risulta, esploso in Italia da quando la crisi ha addentato la carne dell’Europa, vale quel che vale: zero. Leggo sul “Corsera” Battista che, scrivendo su un giornalone che si porta a casa bei soldi dei contribuenti, afferma, senza il minimo senso del ridicolo, che una cultura finanziata dallo stato non può essere libera.

Bene, Battista, allora vige lo stato etico: e da quando? E ancora, quali finanziamenti? I 67mila euro al “Caimano” di Nanni Moretti o i finanziamenti ad un ente come quello del Commercio Estero, fondamentale per una serie di ragioni? Con i soldi – n.b.: a fondo perduto – a Moretti, ci finanzi tranquillamente una fondazione culturale che conserva la memoria storica nazionale – ce ne son tante così – e le consenta di pubblicare atti di convegni, opere nazionali, ecc. Si chiama memoria di un popolo e forse vale la pena che uno stato decente se ne serva di quando in quando, per non arrivare ai livelli attuali della politica.

Ma non basta. Nella manovra finanziaria sono assenti le banche. Ci credo: comandano in Europa e nel mondo. Intoccabili. Dunque, domanda: la politica cos’è? Ancella dei poteri finanziari e bancari? Tremonti spiega sempre sul “Corrierone” che la crisi è storica, cambia tutto, è cambiato tutto, per meglio dire, e vige l’economia di carta e non più quella reale. Per la verità, sono due decenni che ne sento parlare. E constato che nel discorso di Tremonti ci sono due contraddizioni: da un lato, dice che “la politica è tornata a fare la politica”, dopo lo shock della crisi; dall’altro, osserva che le banche comandano e la finanza ci mette sotto. Tutti, politici in primis.

Questa seconda parte della teoria mi sembra più credibile. Il vero nodo drammatico e imbarazzante per la cosiddetta “casta” è che  essa non è niente, è marmellata, di quella scadente. Non riesce a concludere niente, non ha peso specifico, né cultura, è inesistente sul piano strategico e non riesce a pensare che per se stessa e nell’orizzonte di una legislatura, se va bene. Non è politica, questa. E non c’è bisogno di argomentare con l’armamentario di un politologo per capirlo. La burocrazia è tecnoburocrazia e comanda, dopo l’avvento delle Bassanini, i ministri sono tigri di carta e ogni appello alla politica sui territori, in queste condizioni, rischia di essere flatus vocis. Federalismo incluso. Occhio alla penna, perché l’Italia versa in questa situazione e non c’è manovra che tenga.

Del resto, diciamo la verità sulla crisi. Mentre Tremonti osserva, con rara finezza, che siamo su un’altra sponda della storia, gli italiani se ne vanno su sponde adriatiche a godersi il primo sole, quando c’è, e come osserva un bagnino in tv, con meno finezza del ministro dell’Economia: “Nel week-end, tutto pieno qui a Rimini”. I consumi, la microeconomia funziona, galoppa, ben al di là della crescita, che non c’è. L’Italia è un calabrone che vola, ancora. E i politici, Tremonti incluso, non si accorgono che lo scarto per i consumi, per il nuovo boom, si chiama questione demografica: se non ci sono tanti diciottenni, chi le compra le macchine? I sessantenni con la pensione dimezzata? E chi apre nuovi mercati? Chi fa azienda? Chi consuma per investire? Ma lo stesso nichilismo galoppante decise – insieme alla grande finanza e ai grandi giornali laicisti, tra cui il “Corrierone” – che la modernità dovesse essere uomini liberi e donne in carriera, niente più famiglie numerose e niente più questione demografica. Aveva vinto Malthus e tutti zitti, please.

La manovra non poteva certo lavorare su questo versante, ma su altri, più noti e meno espansivi. E sia, ma allora non si dica che la politica è tornata a fare la politica. Si dica piuttosto che il calabrone vola, sì, ancora, ma su una palude di fanghiglia che noi osiamo ancora chiamare Nazione. Sono questi i nodi, caro Battista, non lo stato finanziatore a due esercizi (ok per i soldi al giornalone, che schifo per quelli alle fondazioni), e vedo che i soloni della politica, anche di centrodestra, si mettono da soli sugli altari, mentre gli italiani decidono l’unica cosa seria da fare: sfangarla da soli e, alla fine, andare al mare anche nei fatidici giorni delle elezioni. Ha vinto retoricamente Gaber, con la sua celebre canzone “Democrazia”. Riascoltatela o ascoltatela se l’avete persa, signori, anche questa è cultura. Ve l’assicuro, da oscuro gazzettiere di provincia.