Il “No” preventivo

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Il “No” preventivo

28 Maggio 2006

Oscar Luigi Scalfaro, dall’alto dell’autorità morale derivatagli dalla prova d’imparzialità e correttezza fornita in occasione dell’elezione del Presidente del Senato ha richiesto, nei giorni scorsi, che si eviti di trasformare la prossima consultazione referendaria in un’occasione di rivincita elettorale, oscurando di fatto la materia del contendere. Nobile esortazione. Se non fosse che l’ex-Presidente, seguendo il metodo clericale che gli è aduso, non abbia inteso occultare il proprio proposito di conseguire una vittoria ideologica prescindendo dal merito dei problemi istituzionali posti dal referendum. Non è il solo nelle fila della nuova maggioranza. Romano Prodi, prendendo la parola il 25 aprile a Piazza del Duomo, ha affermato senza giri di parole che il referendum del 24 e 25 giugno sarà l’occasione per chiudere definitivamente i conti con il centro-destra. Con un colpo solo si potrà legittimare “la vittoria risicata” e affermare l’intangibilità della Costituzione del 1948. Agli occhi del Presidente del Consiglio prossimo venturo, dopo l’elezione di Giorgio Napolitano al Colle, si profila una nuova ghiotta occasione per riunificare ciò che, a suo avviso, la guerra fredda aveva artificialmente diviso: le tradizioni politiche del cattolicesimo sociale e del comunismo nostrano che, secondo una vulgata a dire il vero un po’ stantia, starebbero alla base del patto costituzionale da difendere contro la barbarie di nuovi boulangisti. Andrea Manzella, d’altra parte, ha provveduto a mettere nero su bianco. La proposta di riforma costituzionale del centro-destra sarebbe, addirittura, un progetto eversivo che tiene in sospensione la Costituzione repubblicana. Essa celerebbe la trasposizione in chiave costituzionale delle tesi revisioniste e negazioniste sull’origine della Repubblica e della Costituzione. Accuse gravi che meriterebbero di essere dettagliate. Anche perché una cosa è la storia del periodo che va dall’8 settembre 1943 al 18 aprile 1948, altra cosa sono i miti che, con riferimento a fatti specifici avvenuti in quelle temperie storiche, sono stati legittimamente costruiti dai protagonisti del tempo. Si vorrebbe perciò comprendere se il revisionismo e il negazionismo stigmatizzati con tanto fervore critico siano riferiti ai fatti oppure ai miti, che proprio l’avanzarsi della ricerca storica, dopo un certo lasso di tempo, pone fisiologicamente in crisi.

Ce ne è abbastanza per ritenere che, impostata in tal guisa, la campagna del centro-sinistra non intenda porre in discussione le specifiche proposte di modifica del testo costituzionale avanzate dalla controparte, ma la sua stessa legittimità democratica. E non intenda neppure sostenere che il testo originario della Carta sia preferibile rispetto a quello uscito dalla riforma ma che sia intangibile perché espressione di un patto originario che, al più, potrà essere rinnovato esclusivamente dagli eredi delle parti che a suo tempo lo contrassero.

Se queste tentazioni prevalessero a sinistra, assisteremmo a una sconfitta della sua componente riformista. Le lancette dell’orologio istituzionale sarebbero spostate indietro: verrebbe travolto il 1994 con i suoi effetti bipolari, ma anche la stagione craxiana con la difficile ricerca di un superamento di quella Repubblica dei partiti entrata definitivamente in crisi nel 1979.

Si potrà contrapporre, a questo ragionamento, un problema di metodo a priori. Si potrebbe sostenere: una riforma costituzionale di tale ampiezza non può essere scritta da una sola parte e, fosse pure solo per questo, va rigettata. Per confutare questa tesi non mi appellerò al precedente del titolo V e alla risicata maggioranza che lo approvò quando l’arbitro del tempo aveva già in bocca il fischietto per rimandare tutti negli spogliatoi: sarebbe troppo facile. E non ricorderò neppure i tentativi che, almeno una parte del centro-destra, ha sinceramente sviluppato per coinvolgere la controparte. Preferisco, piuttosto, porre un’ulteriore problema di metodo che, forse, merita di essere anch’esso considerato.

Voglio sostenere che una proposta giunta per una via inopportuna, non dovrebbe in nessun caso far decretare che di essa non vi sia bisogno. Né che i suoi contenuti siano, per questo, inaccetabili o scandalosi. E’ possibile, cioè, confermare un rifiuto metodologico ma convenire sull’urgenza di un provvedimento e persino aprire una discussione seria nel merito, anche al fine di cercare di comprendere se e come il presunto vulnus originario possa essere riparato. In termini più espliciti, a quanti legittimamente dubitano su alcune parti della riforma non si chiede di “convertirsi” ad essa per ragion politica ma gli si domanda di opporsi alla campagna di demonizzazione che, se perpetrata, finirà per travolgere anche le loro buone ragioni facendo prevalere le posizioni più conservatrici e retrograde.

In che modo ciò può avvenire? Ammettendo che una modifica profonda della Costituzione del 1948 non solo è legittima ma è anche necessaria. E poi accettando di confrontarsi nel merito – tecnico ma innanzi tutto politico – con i contenuti specifici delle proposte sottoposte a referendum. Quest’ultimo è senz’altro il terreno più difficile. Ma nel mentre il procedimento di revisione prendeva corpo – da Lorenzago fino alla terza lettura – sulle pagine del Riformista, così come nei convegni di Magna Carta, quel confronto vi è stato. Sarebbe un peccato che i suoi protagonisti ora si ritirassero assorbiti da una mera logica di schieramento. Se, infatti, sopravvivesse un po’ di onestà intellettuale si dovrebbe innanzi tutto ammettere che i tre bersagli principali individuati dalla riforma del centro destra – razionalizzazione del titolo V, premierato e fuoruscita dal bicameralismo perfetto – sono quelli giusti. Nel concreto delle proposte, ovviamente, i distinguo sono non solo legittimi ma obbligatori.

Anche in questo caso, però, sarebbe importante sottrarsi alla tentazione sloganistica. Al fine di assicurarsi il consenso massiccio del sud e mettere così in cassaforte il risultato referendario, questa riforma è stata fatta passare sotto la formula di “devolution“: per la propaganda, poco meno della secessione e, in ogni caso, uno stravolgimento in senso radicalmente federalista dell’impianto regionalistico della nostra Carta. Non è così. L’esigenza di riformare il titolo V è stata infatti riconosciuta da più parti, pur distinti e distanti dai luoghi del centro-destra. La riforma del 2001, infatti, ha devoluto poteri legislativi in eccesso alle regioni non consentendo più allo Stato, pur così depauperato di competenze, di utilizzare il proprio potere legislativo attraverso una clausola di flessibilità, per ragioni di interesse nazionale e per fini che valicano la ristretta prospettiva regionale. Essa, inoltre, non ha neanche previsto un luogo parlamentare nazionale nel quale dare la voce alle autonomie e che possa perciò fungere da camera di compensazione tra Stato e Regioni. Così, da un lato le regioni hanno preteso di legiferare nelle materie loro affidate; dall’altro lo Stato ha inteso continuare ad intervenire con legge su questioni centrali per l’indirizzo politico generale e per tutelare istanze unitarie nel Paese. Ne sono seguiti interminabili e numerosissimi conflitti che la Corte costituzionale fatica a dirimere.

I ritocchi del titolo V previsti dalla riforma, complessivamente, colgono nel segno. A prescindere da aspetti prettamente stilistici e di corretta topografia normativa, nella sostanza sono state notevolmente ridotte le materie regionali, specie nello sterminato elenco riguardante la legislazione concorrente ed stata inserita nell’art. 120 Cost. una clausola generale di competenza, che consente al Parlamento nazionale di legiferare quando lo richiedano ragioni di interesse unitario che trascendono la sfera di interessi ed il territorio regionale. In questo contesto la c.d. devolution diventa un aspetto che, per un verso, è marginale per oggetto e contenuti e, per altro verso, non compromette affatto le istanze unitarie e la coesione nazionale. La devolution, infatti, deve essere letta insieme alla clausola che consente al parlamento nazionale di far leggi ogni qual volta lo richieda l’interesse nazionale. E, inoltre, vanno tenuti presenti limiti che la Corte costituzionale ha posto per tutti i casi di legislazione regionale, anche esclusiva. Essa, infine, avendo oggetti ben delimitati potrà servire ad attivare competenze regionali fin’ora avvolte nel magma delle confusioni interpretative. Il federalismo fiscale non è certo lo spauracchio agitato dalla sinistra. Basti ricordare che già il testo di riforma del 2001 ne aveva previsto il varo attraverso l’approvazione di una legge ordinaria a maggioranza assoluta.

I poteri del Presidente del consiglio sono stati opportunamente rafforzati secondo il modello del Premierato, e su ciò pochi hanno avuto da ridire. Residua un’anomalia nella cosiddetta norma antiribaltone per la quale basterebbe cambiare la maggioranza, anche di pochi senatori, per provocare lo scioglimento. Essa racchiude un’esigenza di moralità politica assai diffusa, visto che l’onorevole Fassino ha inteso affermarla persino nel programma di settennato del suo candidato alla Presidenza della Repubblica. Ma questa condivisibile esigenza non può risolversi in una rigidità da codice civile che non può trovare spazio in una norma costituzionale. Va individuata una formula più generica, flessibile e per questo in grado di contemperare le ragioni dell’etica con quelle della logica istituzionale.

Sul terzo punto forte della riforma si pone il vero problema: il Senato federale. La riforma avrebbe potuto e dovuto completarsi con la previsione del luogo parlamentare nel quale dare spazio alle autonomie: una sorta di Bundesrat all’italiana. Ma la scelta, inevitabile, di togliere la fiducia al Senato la si è dovuta in qualche modo compensare per ottenere che la stessa Camera Alta votasse la riforma. Ne è venuta fuori una stranissima seconda Camera la quale, pur non essendo vincolata dal rapporto fiduciario, mantiene la competenza a decidere su una serie di leggi, anche importanti. Una sorta di divisione orizzontale della materia legislativa tra due Camere, entrambe così “politiche”, perché entrambe aventi potere decisionale finale. La ciliegina sulla torta è il rinvio della soluzione dei conflitti tra l’una e all’altra Camera al Presidente della Repubblica, il quale diviene arbitro in questioni che concernono l’indirizzo politico e il programma di Governo venendo, per questo, a perdere la sua posizione istituzionale super partes. Qui occorrerà certamente una correzione, senza affidarsi a una difesa ad oltranza, francamente insostenibile.

Prendere posizione per il sì non equivale, dunque, a chiudere gli occhi di fronte ai limiti insiti in questa riforma. Significa, piuttosto, fare una scelta per sua natura empirica e approssimativa tra l’esistente e quanto, invece, potrebbe mettersi in moto attraverso la riforma. Significa, soprattutto, sconfiggere la campagna di disinformazione per stabilire un piano di confronto aperto e rifiutare la pregiudiziale ideologica attraverso la quale si tenderebbe  a stabilire un sistema politico a legittimità limitata. Io sono convinto che sia più facile giungere a un sistema politico condiviso attraverso il prevalere del sì e una successiva correzione di alcune parti della riforma concordate in Parlamento. E che, su questa linea, sia possibile ricevere il consenso dei vertici della Casa delle Libertà. I riformisti del centro-sinistra ritengono, invece, che tale medesimo obbiettivo possa raggiungersi più facilmente attraverso la vittoria dei no. Ma non dicono una parola su come convincere Prodi, Scalfaro, Manzella (solo per citarne alcuni) ad abbandonare la linea della delegittimazione preventiva da essi assunta. Per questo, fino a quando alle intenzioni non seguiranno i fatti, più che lecito è politicamente doveroso dubitare della loro parola.

da Il Giornale