Il nobel a Vargas Llosa è un tardivo tributo alla “Generazione Macondo”

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Il nobel a Vargas Llosa è un tardivo tributo alla “Generazione Macondo”

10 Ottobre 2010

“Pensavo che mi avessero completamente dimenticato” ha detto Mario Vargas Llosa quando ha saputo che gli avevano infine dato il Nobel per la Letteratura. “Vargas Llosa è uno scrittore che non morde più. Un romanziere di valore che però rispetto ai primi libri, soprattutto rispetto a La città e i cani, ha perso la capacità di denunciare le ingiustizie e le difficoltà che gravano sulla sua terra”, ha commentato a caldo Alberto Bevilacqua.

Forse è il caso di metterle assieme, queste due dichiarazioni, perché spiegano in modo eloquente il grande ritardo con cui Vargas Llosa ha infine preso un Premio che gli spettava da almeno trent’anni. In molti hanno parlato di un veto di lobby di sinistra che controllerebbero le scelte dei Nobel, e che sarebbero alla base anche dell’altro ostracismo a un altro scrittore latino-americano considerato di destra, come Jorge Luis Borges. Probabilmente, le cose sono più sfumate. Innanzitutto, negli anni ’70 il Premio Nobel per la Letteratura fu dato sì al comunista ortodosso Pablo Neruda e al proto-verde Heinrich Böll, ma anche al denunciatore del gulag Aleksandr Solženicyn e al senatore liberale Eugenio Montale. Insomma, gli assegnatari dei Nobel sono a volte strambi, ma non unilaterali. E poi c’è il fatto che Borges in qualche modo aveva provocato l’Accademia di Stoccolma: non solo approvando il colpo di Stato argentino del 1976 e definendo in un suo libro la democrazia “un curioso abuso della statistica”, ma anche partecipando a un pranzo assieme a Videla e Pinochet. Liberale ferocemente deluso dall’ostinazione con cui gli argentini continuavano a utilizzare la democrazia per votare in massa il da lui odiatissimo generale Perón, Borges avrebbe fatto poi ammenda e sarebbe passato a una decisa opposizione, una volta scoperchiato il dramma dei desaparecidos. Ma ormai per l’Accademia di Stoccolma era troppo tardi.

Vargas Llosa non è però Borges, anche se ha avuto a sua volta varie evoluzioni (ma chi non le ha nella vita?). Comunista da giovanissimo, poi militante democristiano per influenza di alcuni amici, si sarebbe convertito al castrismo all’epoca della Rivoluzione Cubana, per rompere col regime dell’Avana dopo il caso Padilla. Socialdemocratico negli anni ’70, sarebbe passato negli anni ’80 a un liberalismo estremamente ortodosso dopo un corso di studi sull’economia politica negli Usa, e in reazione al populismo del primo mandato di Alan García nel suo Perù. Anzi, arrivò a scendere in campo, fondando un partito liberale, e candidandosi alla presidenza peruviana nel 1990. Anche dopo il ritiro dalla politica attiva ha continuato a prendere posizione su vari temi relativi ai diritti umani, in particolare opponendosi al regime di Fujimori e più di recente criticando duramente il governo di Hugo Chávez. Anzi, per partecipare a un convegno a Caracas ha rischiato addirittura l’arresto. Tuttavia solo un trinariciuto della peggior specie potrebbe definirlo un “destro”. Contrario alle leggi anti-immigrazione; favorevole ai matrimoni gay; critico dell’occupazione israeliana nei Territori; contrario all’intervento in Iraq, anche se ha poi cambiato idea dopo una lunga visita nel Paese post-Saddam. Vargas Llosa sarebbe catalogato in Europa come un liberale di sinistra: stile liberal-democratici inglesi, o radicali italiani. D’altronde il suo approccio al liberalismo è quasi gobettiano: “sono liberale perché è il liberalismo la vera rivoluzione per l’America Latina”. Va pure menzionato il suo interesse per le teorie del capitalismo informale che lo portò a scrivere la prefazione al primo famoso best-seller di Hernando De Soto El otro sendero, anche se poi i due litigarono. Questo non vuol dire che sulle sue posizioni si debba essere per forza d’accordo ma, insomma, in Italia le coalizioni anti-Berlusconi hanno sicuramente accolto gente molto più a destra di lui.

Il problema vero non è dunque che non sia un terzomondista alla García Márquez o alla Galeano. Il problema vero, probabilmente, è che non fa colore. Studioso pignolo e analista attento delle tecniche di composizioni letteraria, Mario Vargas Llosa ha dedicato pagine caustiche alla gran quantità di cattivi scrittori latino-americani che hanno ignorato volutamente il problema della forma, nell’idea che bastasse “denunciare problemi” e descrivere un po’ di ambiente locale per fare arte. Tra tanti brocchi, c’è stato ogni tanto qualche purosangue che è riuscito a portare a quel tipo di temi il suo talento. E sono così venute le saghe ottocentesche di Gabriel García Marquéz, i sortilegi di Jorge Amado e Alejo Carpentier, le cosmogonie mitologiche di Miguel Ángel Asturias o di Pablo Neruda: ma anche le finzioni enciclopediche di Jorge Luis Borges e la commedia umana del primo Mario Vargas Llosa rientrano in fondo in questo stereotipo. E così è venuto quel “boom”letterario latino-americano che ha venduto suoi di copie in best-seller, ha fatto conoscere l’America Latina, ma l’ha pure crocifissa a uno stereotipo di esotismo e cartolina. Magari condito da un pizzico di buona coscienza terzomondista.

Gabriel García Márquez ha continuato sempre su quella falsariga, e forse per quello gli hanno dato il Nobel già nel 1982. Ma si può chiedere a uno scrittore latino-americano l’equivalente del chiedere a un regista italiano di continuare a girare Ladri di biciclette o La dolce vita? Qualcuno lo fa: vi siete mai chiesti del perché i cantanti italiani più conosciuti nel mondo sono Pavarotti e Bocelli? Isabel Allende è un brillante esempio di onesta professionista che, avendo compreso certi meccanismi, fonde consapevolmente le tecniche del boom col folklore terzomondista e con un sentimentalismo da Collana Harmony: apposta per quel tipo di lettori che si vergognerebbero a farsi vedere che leggono una storia da Collana Harmony, ma se la stessa vicenda la scoprono condita in salsa Isabel Allende si convincono invece di essere impegnati. All’opposto, il suo compatriota Alberto Fuguet entrò talmente in depressione quando cercò di piazzare i suoi libri negli Stati Uniti e se li vide rifiutare da tutti gli editori perché non ci trovavano abbastanza “colore” locale, che per curarsela lanciò lo slogan della nuova generazione letteraria McOndo. Che irrideva all’albero-villaggio folklorico di Gabo, per esaltare la globalizzazione dei ristoranti McDonald’s e dei computer Macintosh. Naturalmente, anche questa America Latina modernizzata correva poi il rischio di diventare stereotipo, a sua volta. Roberto Bolaño, lo scrittore che è andato oltre la Generazione McOndo per scrivere quel 2666 che è stato considerato il primo classico del nuovo millennio, a sua volta ha però un po’ ceduto all’effetto, quando ha prescelto proprio la mediatica strage delle donne di Ciudad Juárez, come ombelico della sua saga planetaria sul XX secolo.

Vargas Llosa, appunto, è un autore del Boom della Generazione Macondo che è riuscito ad andare oltre la stessa McOndo. A volte anche continuando a parlare di America Latina, come nei due straordinari affreschi epici La guerra della fine del mondo e La festa del caprone. Ma si trattava di due vicende, il fanatismo ideologico di una rivoluzione millenaristica brasiliana e una cospirazione contro un dittatore dominicano, di un significato altrettanto universale di altri affreschi che ha invece dedicato a personaggi come Paul Gaugain o Roger Casement. Per non parlare di straordinarie contaminazioni come quella del Narratore ambulante, con l’ebreo che racconta agli indios la soria della Metamorfosi di Kafka; o il Caporale Lituma nelle Ande, trasposizione addirittura del mito di Dioniso in mezzo alla ferocia terrorista di Sendero Luminoso. Non è esattamente quello che ci si aspetterebbe da un peruviano, e infatti Stoccolma lo ha messo in castigo per tanto tempo. Alla fine, però, ha deciso. Bene.