Il nuovo presidente francese e il centrodestra italiano
10 Maggio 2017
In politica, come nella vita, non è obbligatorio vincere. Di fronte alle esternazioni dei tanti “macronisti” del giorno dopo – di sinistra, di centro e persino di destra -, d’impeto mi viene da confessare come mi sarei comportato se fossi stato un elettore francese: avrei votato per Fillon al primo turno, e al secondo turno avrei fatto parte di quel 12 per cento di elettori che si sono recati a votare ma hanno annullato la scheda o l’hanno lasciata bianca.
Spiegando le ragioni di questa scelta mi è più facile esprimere un giudizio sulla Francia di Macron e anche su ciò che l’esito delle presidenziali d’Oltralpe, al di là delle schermaglie contingenti, dovrebbe insegnare al centrodestra italiano.
Emmanuel Macron ha avuto coraggio ed è riuscito in una impresa storica. Un anno fa il suo partito non esisteva. Un anno fa pensare che né i gollisti né i socialisti sarebbero arrivati al secondo turno era semplicemente fantascienza. Macron ha rischiato e, con lui, hanno scommesso anche i poteri che lo hanno appoggiato, incoraggiati dal fatto che in Francia un presidente è tale per cinque anni, garanzia di continuità d’azione.
La sua elezione, però, non dà stabilità alla Francia. La partita di Macron si è giocata nell’interstizio tra vecchie e nuove fratture politiche: insomma in uno spazio per ora residuale, come dimostrano tra l’altro l’alta astensione e le tante schede bianche che toccherà al nuovo presidente provare a trasformare nella leva di un possibile riassetto del sistema politico.
Le antiche divisioni che hanno giocato un ruolo in questa campagna sono molteplici. C’è quella tra destra e sinistra sulla quale, secondo François Goguel, si fondano in Francia abitudini elettorali così consolidate da sfidare il susseguirsi delle generazioni e l’avvicendarsi dei regimi politici.
Soprattutto, c’è la frattura tra destra ed estrema destra, separate dal fatto che in Francia, al tempo dell’occupazione tedesca e di Vichy, il capo della resistenza fosse un generale dal nome di Charles de Gaulle e, forse ancor di più, dal fatto che lo stesso generale, divenuto presidente della V Repubblica, abbia concesso l’indipendenza all’Algeria: fatto, quest’ultimo, che ha determinato il tentativo di un vero e proprio colpo di Stato militare, nonché il proposito di far pagare al presidente quella scelta con la vita.
Tutto questo in Francia appartiene a un passato che non passa o che, quantomeno, non passa del tutto. E oggi le divisioni del passato si intersecano con fratture nuove, determinate dal confronto con la globalizzazione e con i suoi problemi, non ultimo quello dell’Europa e delle diverse idee sulla sua rifondazione. Da qui l’enuclearsi di uno spazio politico ampio ma minoritario che Macron ha saputo abilmente occupare. Per lui, la parte veramente difficile del lavoro inizia ora.
Veniamo a noi. Le elezioni francesi possono insegnare qualcosa all’Italia, e in particolare al centrodestra italiano. La storia della nostra metà campo nel nostro Paese non è solcata dalle persistenti fratture che esistono in Francia. Ed è oggi più chiaro che per conquistare il governo non è sufficiente provare a prendere nelle proprie vele il vento della protesta che è sembrato soffiare inesorabile al momento del voto inglese sulla Brexit e della vittoria di Donald Trump.
C’è bisogno di qualcosa in più. C’è bisogno di sintonizzarsi sull’agenda inedita che il XXI secolo ci propone nel campo dell’economia, della geopolitica, del lavoro, del welfare, della sfida antropologica. C’è bisogno di elaborare una convincente proposta unitaria che recepisca le preoccupazioni, le ansie, le paure del popolo, trasformandole in ricette di governo.
C’è bisogno di far cadere la barriera che separa “populismo” e “popolarismo”. È più facile a dirsi che a farsi, tuttavia è possibile: per noi più che per i nostri cugini francesi. E, anche per questo, abbiamo il dovere di provarci.
(Tratto dall’huffingtonpost.it)