Il nuovo Start: luci e ombre del trattato voluto da Obama

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Il nuovo Start: luci e ombre del trattato voluto da Obama

24 Dicembre 2010

Lo Start, acronimo inglese di Trattato per la Riduzione delle Armi Strategiche, è stato votato da una maggioranza bipartisan al Senato degli Stati Uniti. 71 senatori, di cui 13 repubblicani, ne hanno approvato il testo. Lo Start rinnova il precedente trattato, scaduto lo scorso dicembre, in base al quale Russia e Usa si impegnano a ridurre del 30% le proprie testate nucleari, vettori e lanciatori, oltre a instaurare un regime di controllo reciproco.

Politicamente parlando è una vittoria chiara dell’amministrazione Obama, dopo le sconfitte subite nelle elezioni di Medio Termine. Lo Start era uno dei principali punti dell’agenda di politica estera, un “must” per il presidente democratico sin dal 2008. E’ facile ricostruire il percorso del dibattito che ha portato all’approvazione dello Start: c’è stato uno scambio. Obama ha convinto i Democratici a votare a favore del rinnovo dei tagli fiscali voluti, a suo tempo, da George W. Bush. In cambio, i Repubblicani non si sono opposti o hanno votato a favore di alcune misure, più o meno importanti, quali: la nuova legge sull’alimentazione sana nelle scuole elementari (voluta da Michelle Obama), l’abolizione della regola “don’t ask, don’t tell” nelle forze armate, così da ammettervi anche i gay dichiarati. E il trattato Start. Che non è affatto secondario, ma fondamentale e ha implicazioni costituzionali.

La sovranità statunitense è addirittura leggermente diminuita, secondo le clausole del trattato che riguardano il controllo reciproco della sua implementazione. Ma dopo la concessione sui tagli fiscali, il Partito Repubblicano non è più riuscito a mantenere la compattezza interna necessaria a respingere il trattato, come era nelle intenzioni del partito. Il capo negoziatore dell’elefantino, John McCain, si è sempre opposto. Hanno votato contro Jon Kyl, che ha definito il trattato un “residuato della Guerra Fredda” e Mitch McConnel, leader della minoranza repubblicana al Senato. Invece, 13 repubblicani hanno votato assieme ai Democratici. Il primo a dichiararsi a favore del trattato è stato Lamar Alexander. Poi sono arrivati tutti gli altri: Dick Lugar, Scott Brown, Bob Corker, Johnny Isakson, Lisa Murkowski, Thad Cochran, Judd Gregg, George Voinovich, Mike Johanns, Bob Bennett, Olympia Snowe e Susan Collins. Interessante notare come questo voto pro-Obama sia “bipartisan” anche all’interno del Partito Repubblicano: fra i 13 figurano sia esponenti del Tea Party (come Scott Brown) che membri dell’establishment (come Lisa Murkowski). A dimostrazione che il nuovo Tea Party non ha una sua agenda di politica estera. E che, almeno sul trattato Start, il partito dell’elefantino è diviso.

Henry Kissinger, George Shultz, James Baker, Lawrence Eagleburger e Colin Powell, tutti ex segretari di Stato repubblicani, hanno caldeggiato la firma dello Start in un loro editoriale sul Washington Post. La logica di fondo di questi veri guru della diplomazia americana è che la limitazione degli armamenti atomici, sia da parte degli Usa che della Russia, rende il mondo più sicuro. Il trattato “enfatizza il processo di verifica, spalancandoci una finestra sull’arsenale nucleare della Russia. Dalla scadenza del vecchio trattato in dicembre, alla Russia non è più stato chiesto di fornirci informazioni sull’evoluzione dei suoi armamenti strategici e per gli Stati Uniti è stato impossibile condurre ispezioni sul posto”. Per rassicurare quei senatori più preoccupati per la riduzione della difesa anti-missile (chiesta dai russi come clausola fondamentale dello Start), gli autori dell’appello affermano che: “Le relazioni dei nostri comandanti militari e leader civili confermano che il trattato non ostacola i piani statunitensi”. Se è vero che il testo impedisce la conversione al nuovo ruolo difensivo di sommergibili e siti usati a suo tempo come lanciatori di missili intercontinentali “…i comandi ci confermano di non avere alcuna intenzione di convertirli, perché il processo produrrebbe risultati meno efficaci e più costosi rispetto alla costruzione di nuovi lanciatori a scopo difensivo”. E, su pressione del senatore Jon Kyl l’amministrazione Obama ha anche aumentato i fondi (da 70 a 84 miliardi di dollari) per la modernizzazione dell’arsenale.

I contestatori del trattato, particolarmente attivi nei think tank conservatori, come la Heritage Foundation e l’American Enterprise Institute, fra gli esponenti dell’ex amministrazione George W. Bush (John Bolton, Richard Perle) e nella vecchia maggioranza repubblicana che la sosteneva (Newt Gingrich), ritengono però che lo Start sia fuori dal tempo. Adesso le minacce provengono soprattutto da Stati-canaglia come la Corea del Nord e l’Iran, non tanto dal vecchio nemico ex sovietico. Perché porre tanta enfasi su un trattato che riguarda una Russia che, stando alle parole del segretario alla Difesa Robert Gates, “non è più una minaccia, né per noi, né per i nostri alleati”?

Gli ex segretari di Stato repubblicani rispondono a queste obiezioni affermando che: “E’ nell’interesse di entrambe le parti che vi sia trasparenza e stabilità nelle loro relazioni sulle armi atomiche”, in un periodo in cui i pericoli maggiori si chiamano: proliferazione e possibile furto o cessione di testate nucleari nelle mani dei terroristi. Ma c’è anche una ragione diplomatica: “Può essere necessaria la cooperazione della Russia se vogliamo contrastare i programmi atomici dell’Iran e della Corea del Nord”. Il problema pratico, però, è se fidarsi o meno di Mosca. I funzionari d’ambasciata americani, almeno stando a quanto scrivono nei loro cablogrammi pubblicati da Wikileaks, non vedono nella Russia di Putin e Medvedev un partner affidabile. Anche perché sanno che, a Mosca, né l’Iran, né la Corea del Nord sono visti come delle fonti di minaccia. La Russia potrà cooperare, ma fino a un certo punto. E se gli Usa dovessero arrivare ai ferri corti con Teheran o con Pyongyang, il Cremlino non li seguirebbe.

In cambio di questa possibile, ma incerta, cooperazione, a cosa rinunciano gli Usa? Niente meno che al tentativo di rendere invulnerabile il proprio territorio. Il trattato Start “non ostacola i piani statunitensi” attuali per la difesa anti-missile. Ma limita la possibilità di farne di nuovi in futuro. La stessa filosofia dello Start si basa sulla vulnerabilità: in questa logica, ciascuno dei due duellanti tiene basso il suo scudo per permettere all’altro di continuare a minacciarlo, in una logica di dissuasione reciproca. Una logica che è stata confermata dall’esperienza durante tutta la Guerra Fredda, ma che potrebbe già non essere più valida nell’era del terrorismo e della proliferazione nucleare. Un’epoca in cui è inutile un “telefono rosso” fra il Cremlino e la Casa Bianca che possa evitare una distruzione reciproca assicurata, perché al di fuori delle due potenze tradizionali crescono dittatori e terroristi, più o meno suicidi, più o meno pazzi, più o meno vicini al possesso di armi atomiche.