Il paese ha bisogno di riforme non del dialogo con l’opposizione
17 Dicembre 2008
di Milton
Siamo in un momento fondamentale per sorti del nostro Paese. Il modo in cui la classe dirigente italiana affronterà i prossimi dodici mesi, condizionerà la nostra capacità di sviluppo e di creazione di benessere per almeno un decennio.
L’Italia nei confronti della crisi finanziaria in atto è in una posizione di forza rispetto ad altri paesi indistrializzati, anche europei: il sistema bancario regge e reggerà (un mutuo sub-prime in Italia non verrebbe concesso neanche sotto la minaccia della armi), la propensione al risparmio degli italiani è proverbiale (l’utilizzo delle carte di debito è di gran lunga il più basso tra i paesi del G20) e compensa significativamente l’alto debito pubblico.
Dall’altro lato, l’Italia è in una situazione estremamente critica per quanto riguarda la crisi economica che seguirà quella finanziaria. Abbiamo sì un’imprenditoria diffusa che ama rischiare e ha spesso idee geniali (non parlo evidentemente né dei capitani coraggiosi, né delle grandi familglie proprietarie di giornali, di monopoli e di rendite), ma questo substrato positivamente operoso, non è purtroppo messo in grado di intraprendere liberamente. Paga tasse troppo alte, ha un costo del lavoro scandaloso, è oppresso da una burocrazia elefentiaca e costosa, non può servirsi di infrastrutture dignitose e paga ogni genere di servizio, dall’energia alla distribuzione, più di ogni suo concorrente estero. Quando la crisi economica arriverà (sta già bussando alle porte), questi nodi verranno al pettine, e nonostante le grandi idee e la voglia di rischiare, le aziende italiane perderanno di competitività, che significa meno ordini, che significa perdita di posti di lavoro.
Ci sono quindi due generi di crisi in atto per il nostro Paese. Quella finaziaria di cui tutti straparlano senza capirci un granché e quella organica, annosa che attanaglia l’economia italiana da almeno due decenni. Paradossalmente dobbiamo fregarcene della crisi finaziaria in atto, non è un nostro problema, e concentrarci finalmente sulla nostra organica incapacità di creare sviluppo.
In questa direzioni, due sono le strade maestre.
In primis, liberare risorse. La spesa corrente è sperperata in mille rivoli improduttivi che alimentano rendite ed inefficienze. Ma perché un vegliardo di 58 anni deve andare in pensione, e una donna deve predere l’assegno INPS prima di un uomo, perché un dipendente pubblico fannullone deve vedere il suo stipendio aumentare anche se non ha prodotto nulla. Ed ancora, esiste una persona di buon senso che sappia spiegare a cosa serve una Provincia, o perché una TAC in Lombardia costa un terzo che in Calabria, o perchè un Comune deve essere azionista di maggioranza dell’azienda di autotrasporti cittadini e degli impianti che erogano luce e gas. E’ ragionevole che grandi quotidiani, governati da patti di sindacato che includono banche e grandi aziende, prendano svariati milioni di sussidi statali all’anno, è normale che esistano comunità montane in ridenti cittadine balneari, è ammissibile che esistano università dove il numero dei professori superà quello degli studenti?
Non è vero che non ci sono risorse. Basta avere il coraggio e la tempra per trovarle. Se poi qualcuno s’arrabbia, e sufficiente non leggere i sondaggi per qualche mese e fregarsene.
La seconda strada maestra e quella di favorire gli investimenti e la competitività delle imprese. E’ mai possibile che delle decine di miliardi di euro stanziati ormai da un quinquennio per infrastrutture pubbliche, ne siano stati spesi solo il 4%: tutto ciò non è solo scandaloso, ma è criminogeno. Ma è mai possibile che i no-TAV debbano decidere la politiche delle infrastrutture in Italia? Le opere pubbliche una volta decise si fanno, e se qualcuno ricorre al TAR, pazienza, si continua e nel caso gli verranno rimborsati i danni.
Ed ancora, liberalizzare; perché deve essere così complicato soprattutto per un governo che si definisce liberale. Gli ordini professionali, i servizi pubblici locali e tutto quanto è necessario affinché in ogni settore ci sia trasparenza e concorrenza.
Infine, serve una deregulation selvaggia della libertà d’impresa: un imprenditore deve poter aprire una sua impresa in pochi giorni come accade in ogni paese industrializzato, deve avere una ragionevole certezza delle regole e non passare la sua vita nei tribunali amministrativi per veder accolto un suo giusto ricorso, deve poter trattare la produtività nella sua azienda con la sua forza lavoro, deve poter dare al lavoratore la maggioranza del costo di quel lavoratore, deve avere infrastrutture e servizi a prezzi di mercato.
E per fare tutto questo, perché dovrebbe servire l’accordo dell’opposizione, perché dovrebbe servire il dialogo. Il governo non pensa che sia sufficiente il mandato ricevuto appena sei mesi fa dagli elettori?
Quando, se non ora, fare quelle riforme necessarie per liberare spesa corrente da dedicare allo sviluppo e agli investimenti? Quando, se non ora, chi ha responsabilità di governo e si definisce liberale, fare finalmente quella rivoluzione liberale indispensabile per liberare energie positive per lo sviluppo?
Quando, se non ora, tirare fuori il coraggio?