Il Papa parla a chi ha ceduto alle mode progressiste dimenticando la Verità
21 Luglio 2009
Semplificando molto, la dottrina sociale della chiesa prende forma nel corso del XIX secolo dal duplice confronto con gli ordinamenti liberali e la scienza economica (e morale) a matrice utilitaristica, e con la potente formazione ideologica e militante del socialismo “religioso” e scientifico. Elabora senza dubbio una "terza via", su un terreno occupato dalle scienze sociali e dal nascente dominio dei movimenti socialisti sulle masse. Si è detto che la componente antisocialista prevale nei dottrinari cattolici, almeno nel corso del XIX secolo, ma il terreno e i termini della sfida socialista influiscono anche emulativamente nella critica sociale cattolica alle dottrine liberali e liberistiche.
Nel radicale conflitto novecentesco, ormai politico totale, tra organicismi e socialismi (anche di destra), da un lato, e istituzioni liberal-democratiche, dall’altro, questa terza via, pure apprezzata, sembra destinata alla marginalità. Forte tra le due guerre, almeno, della forza del magistero romano e di un movimento cattolico prevalentemente romanocentrico, e comunicante sia con le economie democratiche (e il primo welfare) sia con gli ambiziosi modelli neocorporativi, la dottrina sociale subisce nel secondo dopoguerra le estreme sfide marxiste e rivoluzionarie.
Queste sfide, dopo un paio di decenni di resistenza, permeano clero e laicato colto, e si sommano alla crisi interna, cattolica, della teologia morale razionale e del diritto naturale; la dottrina sociale quasi scompare dalla cultura cattolica “qualificata”. Nel capitolo su les hommes du seuil (coloro che si affiancano senza appartenere, i simpatizzanti e i complici) del suo grande saggio Sociologie du Communisme (1963), Jules Monnerot scriveva: “A partire dall’intervento del comunismo nella storia, la domanda [cui una retta coscienza cristiana deve rispondere] cambia; e diviene: La fede che non agisce è una fede sincera?” (p.131). È una domanda che, indotta con autorità dalla rivoluzione bolscevica e dall’azione dei partiti comunisti nuovi protagonisti della storia mondiale, tormenta la coscienza cristiana.
Ma il problema cruciale sarà: chi guida il cristiano nel definire questa nuova fede “che agisce”? Non aveva la dottrina sociale già operato in questo senso da quasi un secolo, e se no, dove trovare il suo Modello se non altrove, nelle rivoluzioni? Il p. Chenu, il cui prestigio e candore intellettuale furono largamente corresponsabili della mutazione progressista della Weltanschauung cristiana (come un geniale gesuita, il p. Gaston Fessard, diagnosticò fino dagli anni della guerra), dichiarerà: la dottrina sociale della chiesa, ça n’éxiste pas! Essa persiste, invece, fosse solamente come fermo patrimonio dottrinale di Roma e come cultura sociale di sfondo dei ceti politici democratico-cristiani europei. Non a caso sarà un vescovo polacco (Karol Wojtyła), nella sua irriducibile autonomia dalle mode progressiste delle cattolicità d’Occidente, a coltivare la dottrina anche dopo il Concilio, e riproporla poi nel corso del suo pontificato. Il prezioso strumento che si intitola Compendio della dottrina sociale della chiesa, pubblicato dal Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace nel 2005, è doverosamente dedicato a Giovanni Paolo II, oltre a riempirsi del suo magistero.
Sussiste perché dotata di fondamenta non contigenti. Di fronte le oltre trecento fitte pagine della compilazione del 2005, corredate da oltre 150 pagine di indice analitico, si può affermare che la base, che pur rende oggi la dottrina sociale cattolica non un residuato (come si è pensato a lungo) ma una piattaforma di consenso internazionale, fu già nell’Ottocento e resta il patrimonio rigoroso della teologia morale classica. Leggiamo nel celebre manuale di Teologia morale del Vermeersch (II, 1928, p. 59), all’inizio del trattato de caritate: “Alla nuova e ineffabile comunità nella quale, in virtù della nostra vocazione soprannaturale, diveniamo una cosa sola con Dio e col prossimo nell’immediato possesso beatifico di Dio, [a tale nuova comunità] corrisponde una nuova virtù, ad un tempo operativa e unitiva, nella quale amiamo Dio e in Dio ogni nostro prossimo come è opportuno amare, tenuto conto dell’ordine delle cose presenti. E come crediamo Dio per fede e crediamo nel Dio rivelante, così è opportuno che amiamo”.
L’amor caritatis, verso Dio e verso il prossimo, rimanda naturalmente alla teologia agostiniana. Per Agostino si fruisce del bene cui si attinge come un fine a sé: la caritas muove a fruire di Dio per se stesso, e di sé e del prossimo avendo Dio come fine. Questa via duplice e una esige, però, che si conosca il Dio della rivelazione; non è attuabile diversamente. Vuole dunque una caritas guidata dalla Verità. E nel Compendio, nonostante i rinvii a “Verità” occupino tre colonne e mezza dell’Indice, questo criterio (data per scontata la duplice caritas) non risulta mai così esplicitamente.
2. Nella Caritas in veritate (in seguito VC; rinvierò alle versioni in altre lingue, tutte accessibili, come anche le fonti magisteriali citate dalla VC, sul sito www.vatican.va) l’apporto peculiare di Benedetto XVI è appunto il tema, ed il criterio, del in veritate, nella verità.
La lettura dell’introduzione è indispensabile per intendere la qualità innovativa dell’Enciclica, e sarebbe un errore intenderla come un “prologo in cielo”. “La carità nella verità (…) – esordisce Benedetto – è la principale forza propulsiva [Antrieb, force dynamique] per il vero sviluppo di ogni persona e dell’umanità intera (…). È una forza che ha la sua origine in Dio, Amore eterno e Verità assoluta (…). Difendere la Verità, proporla con umiltà e convinzione, e testimoniarla nella vita, sono pertanto forme esigenti e insostituibili di carità. Questa infatti ‘si compiace della verità’ (1Cor. 13,6)”. Si tenga conto che carità/caritas corrisponde nel sostrato greco del linguaggio cristiano a agàpe, amor divinus, e il testo tedesco dell’Enciclica ha sempre Liebe, amore.
Se, dunque, “la carità [la caritas-agape] è la via maestra della dottrina sociale della chiesa”, quest’ultima si sa originata nel Dio-Verità, si comprende come martyria, e si ordina al vero “sviluppo” dell’umano. La formulazione di Benedetto è coraggiosa quanto esplicita: poiché la carità-amore (Liebe) è andata incontro a “svuotamenti” (fraintendimenti, quindi estromissioni dall’orizzonte delle responsabilità morali), essa richiede di essere di nuovo esplicitamente coniugata con la verità.
Non solo, dunque, va tematizzata la veritas in caritate di san Paolo (Ef. 4, 15) ma va affermato un complementare caritas in veritate. “In questo modo non avremo solo reso un servizio alla carità, ma avremo anche contribuito ad accreditare la verità (…), in un contesto [quello delle culture occidentali] che relativizza la verità”. In effetti “solo nella verità la carità risplende e può essere autenticamente vissuta” (par. 3), poiché “senza la verità (…) l’amore [sempre Liebe] diventa un guscio vuoto”, che può essere riempito, e si riempie, arbitrariamente. Insomma la carità-amore senza verità, Agape senza Aletheia, non basta a sé.
Questa ultima affermazione di VC non è di routine, ma una formulazione esplicitamente critica che concerne il passato recente della pratica della carità nelle chiese cristiane: un sentimento pro-sociale, come si dice, viene spesso riempito “arbitrariamente”, ovvero senza consapevolezza, ma solo con un generico e non impegnativo sentimento, della sua Fonte cristiana, dunque senza martyria, conseguentemente senza pieno ordinamento alla Persona e alla Famiglia umana. Per questo, ad esempio, il generoso esercizio solidaristico dei cristiani e molto moralismo sociale ignora, quasi non fosse di propria competenza e responsabilità, la rilevanza delle frontiere bioetiche; responsabilità, e attinenza alla dottrina sociale, esplicite invece nell’Enciclica.
3. Una verità che guida la caritas; e una carità che, del tutto antipragmatisticamente, “fa la verità”. Il passo paolino che ha ispirato la formula e l’intitolazione dell’Enciclica è Efesini 4,15. Nella lettera ai cristiani di Efeso san Paolo, dopo aver scritto (4,14) che, ordinati a raggiungere la misura della pienezza di Cristo, “non saremo più fanciulli in balia delle onde, trasportati qua e là da qualsiasi vento di dottrina”, afferma (4,15): “Al contrario agendo secondo verità nella carità, cerchiamo di crescere in ogni cosa tendendo a Lui, che è il capo, Cristo”. E poco dopo scongiura gli efesini: “Non comportatevi come i pagani, con i loro vani pensieri”. Il verbo aletheuo significa prevalentemente, anche nel greco cristiano, ‘dico la verità’, cioè sono vero (detto di enunciati o dottrine) o sono verace, veritiero (detto di persone). Ma già il latino della Vulgata rendeva Ef. 4,14: veritatem facientes in caritate, e similmente la bella, e impegnativa, traduzione recente della CEI che ho citato.
Cos’è in gioco? Lo chiarisce l’oscillazione delle interpretazioni del passo di Paolo. Nel suo magnifico commento (Lettera agli efesini, Brescia, Paideia, 1965, ted. 1962, III ed.) Heinrich Schlier, un maestro, sosteneva che il significato fondamentale di “dire la verità” era usato da Paolo nel senso di “annunciare la verità”. In caritate significa allora che “l’annuncio della verità si compie nella forma dell’amore [agàpe] (…). La verità ha la sua rappresentanza in quell’amore che è basato sull’esperienza dell’amore di Cristo, ed è quindi emanazione dell’amore di Dio in Cristo (…)”. Poiché la caritas è nelle opere ed è ad un tempo la rappresentazione della Verità, il “dire/annunciare la verità” cristiano è inteso profondamente, già in antico, come un facere veritatem.
Una quindicina di anni dopo, il p. Ignace de la Potterie, un altro maestro di quella esegesi portentosamente dotta quanto teologicamente densa (che sembra oggi quasi scomparsa), assimilava il luogo paolino al “fare la verità” proprio del vocabolario del Vangelo di Giovanni (ad es. 3,21). Ma per il grande esegeta gesuita fare la verità è maturare la risposta di fede, essenzialmente nell’uomo interiore. In Giovanni “fare la verità”, come anche le opere “fatte in Dio” (opere in Dio o opere di Dio: Gv. 6,28-29), non indicherebbero opere “esteriori” ispirate dalla fede, ma “una attività più interiore”. Fare la verità descrive, per il De la Potterie, l’attività dell’uomo che accede progressivamente alla fede e così “viene alla luce” di Gesù (La vérité dans saint Jean, 1977, II, p.510).
Una geometria di intenzioni e preoccupazioni teologiche e “politiche” univa i due teologi per un tratto, ma li faceva divaricare subito dopo. Li riuniva la lettura non attivistico-pragmatistica, non ortoprassico-rivoluzionaria, del “fare la verità”, quindi della “verità nella carità”. La Verità non diventa un pragma sociale-politico. Esplicita pare la preoccupazione per la deriva politica nello specialista di Giovanni, che lavora alla sua grande monografia negli anni Settanta, i più corrotti in questa direzione pragmatico-ortoprassica della storia cristiana recente. Ma, diversamente da Schlier, egli eccede nella internalizzazione del “fare la verità”, in cui colgo anche un anacronismo: quello di concepire l’interior homo degli antichi cristiani nei termini della dilatazione moderna del Sé. Nel loro schiacciamento sulla Fede anche gli erga, le opere, divengono per il De la Potterie momenti della fede in sé, mai presso l’altro.
In Schlier invece il “dire/annunciare la verità” della sua lettura di Ef. 4,15 ha due punti di forza: la verità attiva significa conoscenza e linguaggio, significa poi comunicazione e testimonianza. Quindi la Fede sotto la Verità, e oltre se stessa. Da ciò l’essere della Verità nella Carità, poiché l’oltre sé è verticale e orizzontale, per dire così, nel duplice amore di Dio e del Prossimo.
4. L’Enciclica prosegue (paragr. 4) affermando che il logos è in Cristo dià-logos, è la verità che “apre e unisce le intelligenze nel logos dell’amore”. Gli uomini si incontrano nella retta qualificazione [Beurteilung] “del valore e della sostanza delle cose”; avverso la diffusa sindrome contemporanea delle relativizzazioni. La chance e la norma, l’orizzonte e la dottrina peculiarmente cristiani, del vivere la carità “nella verità” sono tali da far concludere all’intelligenza, secondo Benedetto, che “l’adesione ai valori cristiani” è guida indispensabile allo sviluppo umano integrale.
Ma questa conclusione deve valere anzitutto, non sembri un paradosso, per la stessa cultura cristiana, se si vuole offrire come chance e come modello. La cultura cristiana appare invece timida, reticente, nel dichiarare se stessa. Afferma la VC: “un cristianesimo di carità senza verità” sarà scambiato (e lo viene effettivamente, aggiungo) come una “riserva” di sentimenti e forze generose, utili ma marginali. Su questa strada non vi è più “un vero e proprio posto per Dio [tema ratzingeriano costante] nel mondo. Senza la verità, la carità [che si presenti e operi così sprovveduta pdm] viene relegata in un ambito ristretto”, irrelato, settoriale”. Un ámbito de relaciones reducido y privado, dice icasticamente il testo spagnolo. Di conseguenza “è esclusa dai progetti e dai processi di costruzione di uno sviluppo umano di portata universale”, progetti e processi che si affermano nell’incontro di saperi e pratiche.
La carità cristiana, come prassi, è in effetti ritenuta “utile” ovunque, a risarcire il quotidiano, ma irrilevante nella decisione razionale, politica ed economica.
Diversi anni fa (1993) in un notevole libretto prodotto dalla facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale (La carità e la chiesa, Milano, Glossa), critico delle derive socio-assistenziali della prassi cattolica e delle loro implicazioni dottrinali, Giuseppe Angelini, una delle nostre intelligenze teologiche più autorevoli quanto autonome dalle mode, poneva la domanda: ‘La Chiesa a servizio della società?’ Osservava Angelini: “sarebbe sconveniente (…) una secolarizzazione dell’opera di misericordia [nel mentre sarebbe ambigua, sul fronte opposto, una sua designazione come ministero ecclesiale], la quale concludesse nella sua assimilazione pratica alla figura del volontariato sociale. (…) L’obiettivo della carità cristiana non è il bisogno stesso, ma l’altro prossimo (…). In ogni caso [tale obiettivo] suppone un discernimento cristiano del bisogno, che si sottragga ad un’indistinta e pregiudiziale soggezione nei confronti della codificazione sociale dei bisogni stessi”. E più avanti: “La giustizia più grande (…) è irriducibile ad una qualsiasi mediazione sociale; addirittura, essa è alla fine ignota al soggetto stesso che pure la pratica. Il senso della sua opera infatti rimane al presente nascosto”, poiché, “lungi dall’essere una supplenza nei confronti dei difetti del servizio sociale”, è intrinsecamente profezia della Città di Dio.
5. Esplicitando Angelini, non solo un vero e proprio ministero ecclesiale delle opere di misericordia è ambiguo se non è in veritate; ma anche l’ordinario, e universalmente razionale, agire cristiano in caritate lo è se rischia che i suoi contenuti siano analogati e diretti da ideologie, leggi e pratiche definite per (o contro) gli attori e i decisori dei sistemi di welfare. La caritas salva l’universalità umana cui è destinata se non si occulta, anzitutto a se stessa, come Verità: un punto di estrema importanza.
La VC conferma, a mio avviso, questo genere di cautele critiche che hanno respiro teorico e teologico; cautele di cui, per la verità, il mondo cattolico-sociale è a tratti consapevole, mentre in altre chiese e comunità cristiane la secolarizzazione delle attività caritative appare deliberata e completa. La VC le conferma, dunque, ma ci fa decisamente procedere oltre, poiché propone un orizzonte razionale e criteriologico che va al di là della distinzione tra codificazione sociale e senso evangelico. Attraverso il canone del in veritate Benedetto salda la qualità delle opere alla consapevolezza e alla rappresentanza della Verità.
Heinrich Schlier scriveva, altrove: “Conoscenza [l’autentica gnosis cristiana] e fede consolidano e custodiscono la verità con il fare, ossia con le ‘opere’. È questo un fare in cui la verità stessa entra in azione, azione resa possibile dalla decisione personale in suo favore che ne permette la conoscenza. La conoscenza è preminente. Nella conoscenza la verità e l’essere-vero si rivelano. Anche il fare della verità però ha una sua preminenza, in quanto in esso l’esperienza della verità raggiunge il suo compimento efficace. Il fare della verità è un lasciarsi istruire nella verità dalla verità sino all’azione”. Più avanti: “Così l’amore si realizza nella verità e la verità nell’amore” (Riflessioni sul Nuovo Testamento, Paideia, 1969, ted. 1964, p.358). Come il logos-dialogos ha in sé “portata universale”; così ha portata universale la “conoscenza” che custodisce la verità con le opere. La caritas in veritate può, quindi deve, farsi sapere responsabile nel dialogo di saperi e pratiche che guidano la modernità economica e riflettono rigorosamente su di essa.
Non sembri paradosso, ma questa corresponsabilità anche conoscitiva (e vorrei dire scientifica, e non solo etica) non è “secolarizzazione” della riflessione cristiana, come non erano “secolarizzate” la teologia morale e la riflessione canonistica che hanno accompagnato la “modernità” economica dell’Europa, almeno dal XIII secolo. La secolarizzazione, non vi sarebbe necessità di dirlo, non è la regolazione religiosa del saeculum, il coinvolgimento teologico attivo e magistrale nel dialogo dei saperi. Tutt’altro: secolarizzazione è il saeculum che sottratto alla verità si impone come valore all’intelletto cristiano, quindi alla fede e alle opere.