Il “Paradiso amaro” di un’America politicamente corretta e smarrita

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Il “Paradiso amaro” di un’America politicamente corretta e smarrita

19 Febbraio 2012

Ammesso, in linea di principio, che possa esistere il Paradiso in terra, certamente l’arcipelago delle Hawaii può essere indicato come concreta e possibile materializzazione. E proprio alle Hawaii è ambientato il nuovo film di  Alexander Payne “Paradiso amaro” (il titolo originale è “The Descendants”, ma l’adattamento italiano è più appropriato), con protagonista un misurato e sorprendente George Clooney.

Il divo hollywoodiano indossa perennemente l’ordinaria camicia floreale di Matt King. La sua famiglia, nativa dell’isola, lo ha reso ricco e apparentemente felice. Apparentemente, poiché ad un tratto si trova catapultato in una condizione imprevista. La bella moglie Elizabeth, tanto solare e sportiva quanto il marito è autoreferenziale e sedentario, cade dal motoscafo durante una corsa spericolata. Batte la testa, con violenza. E sulla vita scende il buio del coma. Mentre la moglie si addormenta, al marito tocca un brusco risveglio, poiché ha due figlie. Risveglio scioccante. Preso dal lavoro di avvocato (del quale poteva fare tranquillamente a meno) aveva dimenticato Alexandra, la figlia più grande, diciassette anni, andata via di casa a studiare in una scuola lussuosa (un taglio netto con la famiglia, voluto con determinazione), e la più piccola, Scottie, undici anni, sin troppo vivace e imprevedibile rispetto all’età. Delle due ragazze il padre conosce poco o quasi nulla. Il loro universo  gli è estraneo, indifferente, lontano. Come lontana era in realtà sua moglie, pur se si conoscevano dai tempi dell’università. Matt era convinto di avere una relazione perfetta, solida, priva di dubbi. Ma scopre di essersi illuso e sbagliato profondamente. La tragedia famigliare gli mostra l’altro lato dell’universo celestiale nel quale vive. Il Paradiso è appunto amaro. Una pozione davvero amara da mandare giù.

Il film di Payne consente due piani di lettura, uno superficiale, l’altro assai più complesso. Cominciamo dal primo. La tragedia è affrontata non facendo ricorso a isterismi sopra le righe, ma attraverso la chiave di comprensione dell’ironia. Il regista poteva scegliere di spingere sul pedale della drammaticità. Ha preferito invece il  sarcasmo, rendendo davvero gradevole lo scorrimento della storia. Lo spettatore è portato per mano ad identificarsi con affanni e dolori del protagonista, in un processo di sottrazione che porta il divo a compiere il percorso inverso rispetto alle consuetudini: da eroe a uomo qualunque. La cifra leggera e divertente aiuta questo processo, poiché anche le situazioni all’apparenza più difficili da gestire (e ce ne sono varie) si ammorbidiscono tra le risate. I meccanismi del racconto girano alla perfezione, grazie ai perfetti raccordi della scrittura, che fanno di “Paradiso amaro” un piccolo gioiello cinematografico.

Il secondo piano di lettura ci consente però di fare emergere la vera natura del film, ben nascosta sotto una spessa coltre di gradevolezza ed emozioni, che producono a comando ora risate ora lacrime. “Paradiso amaro” è l’apoteosi del “politicamente corretto”. La radicale messa in discussione dei valori fondanti la società americana (cristiani, puritani, umanistici), cominciata con gli anni Sessanta del secolo passato, e transitata dagli eccessi della controcultura alla più morbida retorica “politicamente corretta”, ormai è una moda dilagante. “Paradiso amaro” ne è l’esemplificazione. Il film ha le carte in regola per  mettere d’accordo tutti: critici e pubblico, uomini e donne, giovani e vecchi, ricchi e poveri. È la distribuzione in dose da cavallo di buoni sentimenti. Un vademecum per affrontare prossimità della morte, solitudine, tradimento, affetti famigliari, insensatezza esistenziale, spirito di vendetta, rispetto del pianeta, crisi del capitalismo, in una nazione che una volta leggeva se stessa come cristiana, ormai in fase di totale smarrimento.